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“Mi oppongo fermamente alla decisione degli Stati Uniti, mi oppongo fermamente alla sanzione irragionevole, e ancor più all’obbiettivo di politicizzare le questioni commerciali”. È questa la replica — ponderata per quasi una settimana — con cui Yin Yimin, presidente della cinese Zte, colosso delle tecnologie per la comunicazione mobile (rete e smartphone), ha commentato il divieto alzato dall’amministrazione Trump verso le aziende americane, a cui è stato vietato di vendere alla società cinese componenti per 7 anni.

La società ha un cui capitale è controllato per il 51 per cento dal governo cinese, conta 85 mola dipendenti e ha chiuso il 2017 con ricavi pari a 14 miliardi di dollari. In una nota che ha accompagnato la prima uscita del presidente — arrivata venerdì dopo che Washington aveva reso pubblica la sua decisione a inizio settimana (dunque probabilmente ben preparata e misurata per essere giocata da Pechino come una strategia) — ha scritto che il divieto non avrà solo un impatto grave sulla “sopravvivenza e lo sviluppo di Zte”, ma “causerà danni a tutti i suoi partner, tra cui un gran numero di aziende statunitensi”.

Due esempi per capire a ciò che si riferiscono i cinesi: i chip degli smartphone della Zte sono prodotti in grande maggioranza dall’americana Qualcomm (società su cui Washington ha già mosso altre iniziative per impedirne la vendita alla Broadcom di Hong Kong, perché collegabile al governo cinese) e i software operativi sono Android, quindi Google. L’avviso indirettamente arriva fino a Roma, dove Zte è partner del governo nello sviluppo della rete 5G.

È proprio questa tecnologica il punto profondo a cui collegare questa nuova escalation americana nella “trade war”, come la chiamano i media statunitensi: il 5G, e chi lo svilupperà definitivamente, sarà implicitamente il regolatore del mercato delle comunicazioni mobile mondiali (non solo in termini economici, ma giocherà un ruolo centrale nelle policy di gestione).

Per questo l’amministrazione Trump s’è mossa pesantemente. La decisione americana si lega formalmente all’accusa secondo cui la società  cinese avrebbe violato i precedenti accordi raggiunti con Washington sulla vendita di tecnologia all’Iran e la Corea del Nord (secondo l’accusa del dipartimento del Commercio, Zte non avrebbe punito alcuni dipendenti coinvolti in scambi illeciti, anzi li avrebbe fatti salire di livello e questo ha fatto infuriare gli americani). Per Zte è stato usato un meccanismo sanzionatorio creando un precedente. Lo step successivo potrebbe essere quello di applicare a società cinesi a partecipazione statale accusate di furto di proprietà intellettuale un sistema del tutto simile a quello che colpisce gli oligarchi russi alleati putiniani (per esempio, il caso recente di Oleg Deripaska e la sua Rusal).

Il campo del confronto commerciale con Pechino è stato ormai superato — per altro coinvolgendo anche un alleato americano che in questi giorni ha un debito da saldare con Washington: Londra, che ha ricevuto appoggio incondizionato sul caso Skripal, s’è allineata alla mossa statunitense.

La dura decisione americana, comunque non è una mossa estemporanea trumpiana, ma piuttosto la chiusura di un percorso messo in piedi da circa otto anni. Nel 2012 infatti il Congresso accusò Zte di lavorare per il governo cinese e facilitare attraverso le sue strutture la creazione di porte con cui la cyber intelligence di Pechino avrebbe potuto penetrate i sistemi americani (ai tempi su Zte pesava anche l’accusa di collaborare con Teheran in operazioni di spionaggio/intercettazioni per tracciare i dissidenti, sebbene non fosse stata l’unica impegnata in certe attività).

“Dal punto di vista cinese — spiega nella sua newsletter Bill Bishop, uno dei più esperti e informati analisti del mondo cinese — mentre la compagnia potrebbe finire per essere menomata, l’episodio ha un valore strategico e di propaganda. Il momento dell’annuncio, [arrivato] poco prima del secondo anniversario di un importante discorso sulla sicurezza informatica e la tecnologia del presidente cinese Xi Jinping, serve a rafforzare il punto che Xi sta seguendo riguardo alla necessità di ridurre la dipendenza dalle tecnologie straniere, e in particolare americane”.

Nel contesto, Zte passa sui media di Stato cinesi — dove la propaganda nasconde quelli che di fatto sono stati comportamenti scorretti dell’azienda — come una vittima del bullismo americano.

In effetti ci sono altri analisti oltre a Bishop che credono che la decisione su Zte, specialmente nel contesto del peggioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, possa portarsi dietro un aumento degli sforzi della Cina per “de-americanizzare il suo core stack di tecnologia dell’informazione” e raggiungere gli obiettivi stabiliti nel piano “Made in China 2025”.

Xi — aggiunge Bishop — verrà fatto passare da  “preveggente”, perché ha chiesto più volte alla Cina di ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dalle tecnologie straniere.

 

Cosa si nasconde dietro la disputa di Trump e Xi su Zte

“Mi oppongo fermamente alla decisione degli Stati Uniti, mi oppongo fermamente alla sanzione irragionevole, e ancor più all’obbiettivo di politicizzare le questioni commerciali”. È questa la replica — ponderata per quasi una settimana — con cui Yin Yimin, presidente della cinese Zte, colosso delle tecnologie per la comunicazione mobile (rete e smartphone), ha commentato il divieto alzato dall'amministrazione Trump verso le aziende…

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