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L’amministrazione Trump ha informato i congressisti che non è al momento necessario alzare nuove sanzioni contro la Russia, come invece richiedeva una legge approvata a luglio in maniera bipartisan. Per la Casa Bianca la legge stessa è già una misura deterrente.

La presidenza “è sotto il fuoco dei legislatori”, come dice il Washington Post, per non aver ancora punito severamente Mosca per le interferenze nelle presidenziali del 2016 (e il capo della Cia ha apertamente detto che i russi faranno altrettanto nelle mid-term di novembre), però sta cercando di non azzerare completamente i rapporti – anche perché il presidente Donald Trump s’era descritto come colui che avrebbe ricostruito una relazione stabile con la Russia, in controtendenza con gli ultimi anni del suo predecessore.

La legge passata quasi all’unanimità a luglio (solo in cinque votarono contro tra Camera e Senato) prevedeva che entro lunedì 29 gennaio venissero approvate le nuove sanzioni contro elementi che fanno affari col mondo della difesa e dell’intelligence russa, a meno che la Casa Bianca non potesse certificare che i potenziali obiettivi stanno “riducendo sostanzialmente” tali attività. Il Congresso dovrebbe aver ricevuto dettagli specifici, coperti da fascicolazione top secret, come hanno fatto intendere alcuni membri delle commissioni congressuali.

Un funzionario del dipartimento di Stato ha spiegato a Politico (parlando anonimamente) che per il momento la legge potrebbe funzionare come deterrente, senza la necessità di imporre sanzioni specifiche contro individui: da quando la legge è entrata in vigore, “stimiamo che i governi stranieri abbiano abbandonato gli acquisti pianificati o annunciati di diversi miliardi di dollari nelle acquisizioni della difesa russa”, ha invece detto la portavoce degli Esteri americani, Heather Nauert, scrive il Washington Post – il riferimento è alla volontà di allontanare anche realtà esterne dai rapporti con Mosca, uno dei target profondi della legge che aveva impensierito alcuni paesi europei che hanno relazioni economiche e commerciali con la Russia.

Questo perché oltre alle sanzioni, la norma approvata prevedeva un’analisi tecnica del debito sovrano russo da inviare in via classificata alle Commissioni congressuali, e invitava le agenzie americane a compilare una lista di oligarchi e personaggi di spicco che hanno rapporti diretti col mondo del potere attorno al presidente russo Vladimir Putin: l’obiettivo sarebbe quello di spaventarli, in un certo senso, e creare una separazione tra le élite e Putin, rendendo quest’ultimo tossico al punto che contatti con lui possono portare all’inserimento in una black list americana.

Lunedì, dopo aver annunciato il colpo a salve sulle sanzioni, il dipartimento del Tesoro americano ha reso pubblica la lista di quegli elementi attenzionati, specificando che al momento non ci sono le condizioni sufficienti per alzare ordini restrittivi nei loro confronti, ma che l’America li guarda. Il vice portavoce della Casa Bianca, Raj Shah, ha spiegato sulla CNN che a questo punto Washington ha già tutto pronto per eventuali nuove sanzioni, sulle quali potrebbe procedere in modo tempestivo in qualsiasi momento. Ecco la deterrenza.

I media hanno già rinominato la lista “Putin-list” (altrove “Kremlin report”): i nomi sono 210, di cui 114 uomini politici (22 ministri, compreso il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, e quello della Difesa, Sergei Shoigu, e lo stesso premier, Dmitri Medvedev) e 96 oligarchi (intanto quelli con patrimonio superiore al miliardo di dollari e collegabili a Putin). Fra questi ultimi c’è per esempio Roman Abramovich (famoso soprattutto per aver riportato il team calcistico Chelsea di Londra ai massimi livelli), il fondatore del colosso industriale Basic Element Oleg Deripaska e l’uomo d’affari Vladimir Potanin; il Tesoro americano ha segnalato anche i vertici delle intelligence e delle banche statali, Andrei Kostin per VTB e Herman Gref per Sberbank. L’elenco comprende anche: Evgheni Kaspersky, fondatore dell’omonima società di sicurezza informatica, finita in mezzo alle polemiche sulle interferenze nelle elezioni Usa; il capo del Google russo, Yandex, Arkady Volozh; l’ex proprietario di Mail.ru Yuri Milner; il numero uno del colosso energetico statale Rosneft, Igor Sechin e quello di Gazprom Aleksei Miller.

Il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov ha definito la lista – che secondo la legge dovrebbe essere accompagnata da un indice di corruzione che classifichi le persone anche in base alla vicinanza a Putin – come “un tentativo diretto ed evidente degli Usa di influenzare le elezioni presidenziale russe”, ribattendo l’accusa alzata dagli americani contro Mosca. La distanza tra le due potenze è continuata a crescere in questo ultimo anno nonostante Trump avesse più volte parlato già in campagna elettorale di un suo piano di riavvicinamento. Tensioni si sono create per dossier delicati come la Siria, e nelle ultime settimane anche la crisi ucraina è tornata a essere un elemento di scontro. Su tutto, il peso politico del Russiagate, la grande inchiesta proprio sulle interferenze e sulle collusioni del team Trump, che sembra tutt’altro che fermarsi.

 

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