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Ancora è presto per un bilancio della raffica di missili lanciata contro Damasco ed Homs da Usa, Gran Bretagna e Francia; ma se c’è un obiettivo che tale Battle Damage Assessment pare confermare è la sostanziale tenuta, per ora (ripeto, per ora), della convenzione informale che dai tempi della Guerra Fredda impegnava i due principali competitor a non venire alle mani l’uno contro l’altro direttamente, per non innescare spiralizzazioni indesiderate e incontrollate. Insomma, parrebbe che i russi siano stati preavvertiti dell’attacco, e conseguentemente anche i loro alleati siriani, iraniani ed Hezbollah, anche se è probabile che si sia fatto in modo, da parte statunitense, che l’informazione non avesse il tempo di raggiungere tutti gli interessati. Non è neanche chiaro se questo intervento è destinato a rimanere un “single shot” o se sarà seguito da altri, con risultati quindi differenti. Speriamo che basti a chi l’ha pervicacemente annunciato e voluto!

Ciò premesso, può essere utile qualche riflessione su questo fine settimana “alla pentrite”, per prepararci a quello che potrebbe seguire.

Innanzitutto, parrebbe che si sia trattato di un atto per lo più dimostrativo asseritamente contro laboratori chimici (?) siriani, per punire Assad del controproducente, inutile e, a mio avviso, poco plausibile uso di gas a Douma. La traballante cittadella della “resistenza” antigovernativa e jihadista era infatti condannata dall’irresistibile avanzata dell’Esercito Siriano che aveva già bonificato tutto l’est Goutha, rimuovendo una pesante minaccia alla capitale Damasco.

Se così fosse, quindi, non si tratterebbe ancora di un’azione con finalità strettamente operative e militari, quanto piuttosto di un messaggio a vari interlocutori, per quanto non veicolato da letterine amorose bensì da “pacchi esplosivi”.

Il primo interlocutore è sicuramente la Russia, messa di fronte a una prova di forza che non può trascurare, ma anche a una prudente chiamata al dialogo. Come a dire “non ti lasceremo vincere la tua guerra in Siria, ma se vuoi possiamo ancora trovare una soluzione condivisa”. Quanto a questa soluzione, potrebbe essere ricercata nella sorte da riservare al vituperato Presidente Assad, anche se una dichiarazione di Theresa May parrebbe escludere la volontà di farlo cadere visto anche il supporto popolare e interreligioso (con particolare riferimento alla cospicua minoranza cristiana) di cui gode.

Un’altra soluzione, potrebbe consistere in un’ipotesi di spartizione della Siria, che riservi ai curdi parte dell’area ad est dell’Eufrate, isolandola dal collegamento diretto con l’Iraq e con l’Iran, ai turchi una porzione della provincia a nord di Homs, Idlib, dove sembrano sul punto di radicarsi, e agli israeliani una fascia ad est delle Alture del Golan.

Israele, appunto, potrebbe essere il secondo interlocutore, per rassicurarlo circa la volontà degli Usa di mantenere una pressione costante su Damasco, l’unico governo del Medio Oriente che mantiene rapporti di alleanza con l’Iran e di ostilità con Tel Aviv e Riiad, per di più ostentando una laica e tollerante libertà di costumi che contraddice fastidiosamente la narrativa antiaraba fortemente propalata in Occidente.

Che Assad sia considerato da Israele più pericoloso degli stessi jihadisti è infatti cosa nota, dimostrata dai ripetuti interventi aerei di Tschal contro le unità siriane in quest’ultimo lustro, ma non solo; tutti “assist” a favore di Daesh e delle altre formazioni radicali che non hanno mai incrinato il rapporto con gli Usa, sempre pronti a porre il veto alle richieste di condanna contro Tel Aviv presentate al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Altro interlocutore è la Turchia, pericolosamente incamminata su un percorso di emancipazione dalla tutela Usa e Nato che la porterebbe ad acquistare sistemi antiaerei russi, gli S-400, e ad aprire una centrale nucleare col supporto di Mosca.

Alla Turchia, che appunto pare non abbia stranamente partecipato a questo attacco alla Siria, viene così ricordato che la Russia non ha ancora vinto e ogni ulteriore apertura nei suoi confronti potrebbe essere intempestiva e imprudente.

Infine, tra i maggiori destinatari di questo ukase, c’è l’Iran, nemico acerrimo e concorrente energetico dell’Arabia Saudita, nonché tra le cause indirette della guerra, scoppiata anche per impedirgli di costruire una pipeline che portasse il suo gas nel Mediterraneo attraverso la Siria. Un Paese che ha la “colpa” di non rassegnarsi ad un isolamento internazionale e strategico che resta l’obiettivo minimo perseguito da Usa, Israele e Arabia Saudita.

A parte questi interlocutori diretti, ve ne potrebbero essere altri, indiretti e un po’ a giro d’orizzonte, il primo dei quali sarebbe l’Europa stessa. Ad essa verrebbe presentata la Francia quale alleato strategico e privilegiato degli Usa anche nel Medio Oriente, al pari di Uk e delle altre potenze anglosassoni; molto prima, in ogni caso, della superpotenza economica tedesca, che non ha partecipato al raid. Una “promozione” di rango che era già iniziata con Obama, responsabile di aver riservato a Parigi il ruolo di addetta agli “affari subsahariani” e “nord africani”, con i pessimi risultati che però abbiamo visto in Libia.

Non è, quindi, un caso se l’operazione Barkane, con la quale i cugini d’oltralpe perseguono politiche di strettissimo interesse franco-francese tra il Chad e il Mali, è riuscita a strappare aiuti e concorsi europei che non sarebbero altrimenti giustificati da operazioni semplicemente nazionali.

Anche il nord Africa non potrà trascurare questi segnali, con particolare riferimento all’Egitto, sempre più tiepido nei confronti della coalizione anti-Assad, anche per i problemi che alcuni alleati impliciti della stessa gli stanno creando da anni soprattutto nel Sinai.

In questo contesto, si potrebbe anche leggere il giro di conferme e successive smentite circa la morte di Khalifa Haftar a Parigi, proprio in queste difficili e strategiche giornate. La perdita di un simile alleato rappresenterebbe, infatti, un ulteriore problema per il Cairo, impegnato in una lotta ai Fratelli Musulmani all’interno del Paese che trova, nell’operazione Dignità a Bengasi e Derna, un efficace fianco difensivo ad ovest. La scomparsa, o anche solo l’inabilità del generale libico rappresenterebbe inoltre un grosso problema soprattutto per Putin, che sarebbe costretto a cercarsi un nuovo interlocutore in Libia capace di assicurargli le stesse prospettive di alleanza e di spazio nel Mediterraneo conseguenti alla sua vicinanza con Haftar, viste quelle a rischio in Siria. E, last but not least, la scomparsa del generale costituirebbe un problemino anche per l’Italia, impegnata da tempo in una interlocuzione con lui per integrare quella con Al Serraj a Tripoli, al fine di ridurre le minacce dal fronte nord africano, ora palesemente riconosciute anche dal ministro Minniti, che non fa mistero di temere l’infiltrazione di terroristi nei barconi diretti alle nostre coste.

Per concludere, una riflessione di carattere tecnico operativo: un intervento aereo che non si voglia limitare a distruggere un po’ di infrastrutture e a fare un po’ di morti, conseguendo invece risultati duraturi, deve essere integrato da un intervento terrestre. Ma non sussistono dispositivi terrestri adeguati, ad immediato ridosso della Siria, capaci di sviluppare azioni significative di occupazione e presidio del territorio colpito, sfruttando lo shock dei bombardamenti; a meno che per tali forze non si intendano quelle residue di Daesh e delle varie componenti jihadiste, fortunatamente non in grado di sviluppare un’azione efficace contro un esercito moderno come quello siriano; sono invece certamente in condizione di sfruttare la situazione per riguadagnare parte del terreno perduto ultimamente, trascinando ancora a lungo una guerra che stava ormai per volgere al termine.

Non ci resta che sperare che non sia questo il risultato che hanno voluto gli artefici dei fuochi del 13 notte.

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