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Lo scrive oggi Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera, che è tra le firme meglio informate del giornalismo italiano su quanto accade o accadrà dalle parti del Nazareno.
Il Pd pensa di rispondere alla candidatura LeU di Pier Luigi Bersani nel collegio plurinominale (orrenda creatura dell’orrendo “Rosatellum”) di Bologna con quella di Piero Fassino.

Le ragioni di concorrenza elettorale sono più che comprensibili e alle elezioni si va per vincere, non certo per partecipare. Quindi la scelta è perfettamente spiegabile, vista con lo sguardo di chi compila le liste.

Se però ci spostiamo dal lato degli elettori, in particolare quelli di sinistra, ecco che la decisione diventa inquietante e malinconica, con venature un po’ ridicole.
Attenzione, non stiamo parlando solo della scelta del Pd o di Matteo Renzi, parliamo della condizione nella quale si è messa da sola la sinistra italiana, al punto di dover assistere allo spettacolo di Fassino contro Bersani, roba impensabile nei cinque decenni che abbiamo alle spalle, quelli del loro impegno politico.

Piero Fassino nasce a Torino nel 1949, da solida e prestigiosa famiglia partigiana (il padre Eugenio fu comandante della 41esima brigata Garibaldi durante la resistenza). Si iscrive alla FGCI nel ‘68 e diventa segretario della Federazione torinese del PCI nel 1983, per poi seguire tutte le evoluzioni del partito fino all’elezione a segretario nazionale dei DS nel 2001. Due volte ministro, è sindaco di Torino dal 2011 al 2016.

Pier Luigi Bersani nasce in provincia di Piacenza nel 1951 da famiglia di artigiani di impronta cattolica, ma lui sceglie da subito il PCI, diventando consigliere regionale a 29 anni. Fa il Presidente della sua regione dal 1993 al 1996, poi il ministro in cinque governi e il segretario del PD dal 2009 al 2013.

Due carriere politiche perfettamente speculari (al governo locale e nazionale, alla guida del partito), provenendo dalle due regioni più significative della storia politica della sinistra italiana, quel Piemonte che ha sempre ispirato la “testa”, quell’Emilia Romagna che ne ha sempre rappresentato il cuore.

Ebbene oggi queste due figure importanti sono pronte allo scontro elettorale, forse addirittura a battersi nello stesso collegio, pronte a rappresentare due anime della sinistra (secondo loro).
Certo, in politica ci si divide, ci si perde e, a volte, ci si ritrova.

Però Fassino e Bersani non possono rappresentare due anime della sinistra neanche se lo vogliono con tutte le loro forze, perché sono la stessa cosa, la stessa storia.
Quella diversità potrebbero rivendicarla al Manifesto e forse in quel che resta della Fiom, ma non possono farlo due tra i massimi protagonisti di un’unica storia che li coinvolge da quarant’anni.

Non possono per il semplice fatto che il loro popolo, che comunque finirà per dividersi in qualche modo, è stato educato al dogma dell’unità del partito e non può che uscire disorientato da questo scontro che ormai va avanti da qualche anno, tanto è vero che oggi, come ben ricorda Brunella Giovara su Repubblica, a Sesto San Giovanni c’è un sindaco di Forza Italia.

Lo scontro Fassino-Bersani è quindi un perfetto termometro dello stato di salute dello schieramento progressista italiano, che non a caso pare assai poco di moda tra le scelte degli elettori.
Renzi avrà le sue colpe, ma è difficile, molto difficile, affermare che è l’unico responsabile di questo stato di cose.
Le urne sono vicine, i numeri parleranno chiaro.

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