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Questo fine settimana della campagna elettorale è stata contrassegnato dai simboli, dalle candidature e soprattutto dai programmi. Qualche giorno fa sono usciti i dieci punti del centrodestra; a Pescara invece è stata la volta del M5S. Il candidato premier Luigi Di Maio ha esibito, infatti, i venti capitoli, che condensano in modo chiaro la prospettiva che il suo partito, il quale con ogni probabilità avrà una presenza consistente in Parlamento, si appresta a mettere in atto nella prossima legislatura.

Si nota subito un’impostazione che sposa a pieno l’idea conservatrice di uno snellimento della struttura faraonica dello Stato. In primo luogo l’aspetto legale. I grillini hanno al primo posto la semplificazione legislativa, con l’abrogazione di quattrocento leggi inutili. Al punto cinque è enunciata la tesi della defiscalizzazione. Non si parla di Tassa Piatta, come nel programma del centrodestra, ma di riduzione dell’Irpef e di una No Tax Area fino ai 10 mila euro.

Questo impianto liberista continua poi con l’abolizione degli studi di settore e un robusto garantismo, enunciato nella formula: il cittadino è onesto fino a prova contraria. In sostanziale convergenza con la proposta politica dal centrodestra è anche la tutela dei risparmi e lo stop al business dell’immigrazione, ottenibile con maggiore cooperazione internazionale e con un piano di assunzioni per un personale specializzato nella valutazione della presenza o meno dei diritti degli stranieri a stare o andarsene dall’Italia.

Qui appare la prima sostanziale differenza dei 5 Stelle dall’idea che hanno dell’Italia Silvio Berlusconi e alleati. Da un lato, infatti, viene lanciata una riduzione del rapporto tra debito pubblico/Pil di 40 punti in dieci anni, ma dall’altra si sostiene esplicitamente non soltanto una politica familiare da 17 miliardi di euro ma il ritorno di investimenti pubblici produttivi per 50 miliardi di euro su territorio e innovazione tecnologica.

Il superamento della legge Fornero e la staffetta generazionale deve coniugarsi con una dispendiosa politica assistenziale: nuovi lavori, pensioni (mai più sotto i 780 euro) e soprattutto il reddito di cittadinanza, una misura estremamente salata e senza reali garanzie di produttività.

Quest’ultima voce è significativa per cogliere i dettagli di un sintomatico “liberismo di Stato”, che intende devolvere oltre 2 miliardi di euro per la riforma dei centri di impiego e flex security.

Le misure sociali, proposte dal M5S, però non finiscono qui: Di Maio punta alla creazione di una banca pubblica per gli investimenti per le piccole imprese, agricoltori e famiglie, unita alla creazione di 200 mila posti di lavoro da economia dei rifiuti, 17 mila dalle rinnovabili, con una politica energetica che immagina una lenta ma progressiva uscita dell’Italia dal petrolio entro il 2050.

In ultimo, anche il superamento della buona scuola deve essere fatta con un piano massiccio di assunzioni, incrementando la spesa pubblica per l’istruzione ed eliminando il precariato.

Giorni fa Pierluigi Bersani ha definito giustamente i grillini un movimento politico di centro, senza la moderazione tipica del centro democratico. In effetti la lettura del programma offre inequivocabilmente una mescolanza tra politiche di destra economica e iniziative di sinistra sociale, fuse insieme in modo paradossale, senza che sia spiegato come e con quale coerenza fare le une e le altre insieme.

In quale modo finanziare concretamente questo inusitato “liberismo assistenziale”? Rispetto, ad esempio, ai dieci punti programmatici del centrodestra, nei quali la defiscalizzazione ottenuta con la Flat Tax sarà colmata dalla progressività e dalla liberazione di efficienze economiche presenti nella stessa realtà produttiva della nazione, qui invece si fa leva sullo Stato per dare assistenza e sostegno all’economia.

Dove trovare una copertura economica adeguata? In sintesi il Pd punta legittimamente sulla stabilità della nostra economia pubblica, sulla legittimazione europea e sulla prosecuzione delle politiche di risanamento del bilancio. Il centrodestra va nella direzione opposta, meno centrata sullo Stato e sull’Unione Europea e più sulla società civile e le piccole e medie imprese (pensiamo al piano di privatizzazioni proposto proprio ieri da Berlusconi).

Il M5S invece propone una politica economica di destra, unita a un’iniziativa sociale di sinistra. Alla fine viene di chiedersi con quale incidenza sul debito pubblico potranno essere fatte le defiscalizzazioni e le costose spese sociali che Di Maio propone simultaneamente. Qualcosa di buono, alla fin fine, sta emergendo da questa campagna elettorale.

L’Italia il 4 marzo potrà scegliere se proseguire nella linea socialista europea oppure optare per una via liberale di tipo nazionale. La terza alternativa all’opposto è una strana idea di assistenzialismo liberale, simile alla quadratura logica del cerchio che il filosofo Alexius Meinong definiva, giustamente, contraddittoria, perché può essere pensata sebbene non possa mai esistere nella realtà.

m5s, Beppe Grillo, Luigi Di Maio

La terza via di M5S, fra liberismo e assistenzialismo

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