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Washington ha rinnovato per un altro anno le sanzioni alla Corea del Nord e confermato la postura severa, con il presidente Donald Trump che è tornato a definire Pyongyang “una minaccia straordinaria”. Appena dieci giorni fa, quando l’effetto vertice con Kim Jong-un era nella fase d’estasi, la Casa Bianca diceva che dal Nord non c’erano più rischi, ma l’apice è sfumato e l’innegabile realtà atomica nordcoreana, unita al peso interno di coloro che hanno da sempre cercato di tenere a bada gli istinti presidenziali su Kim, si fanno sentire; tra questi ultimi, uno su tutti, il capo del Consiglio di Sicurezza nazionale, John Bolton (che all’inizio della prossima settimana sarà in Italia), strenuo sostenitore della linea dura contro la satrapia.

Dimenticarsi dunque il tweet in stile trumpiano del 13 giugno – autocelebrazione al ritorno dal vertice suonando un “There is no longer a Nuclear Threat from North Korea” –, la minaccia atomica nordcoreana è affare presente, nonostante i negoziati per una fairy, ossia completa-verificabile-definitiva, denuclearizzazione continuano. In quest’ambito, per mantenere aperto il colloquio, venerdì il Pentagono ha reso ufficiale l’annullamento “a tempo indeterminato” delle esercitazioni congiunte con la Corea del Sud (si inizia con quelle previste per agosto, le “Ulchi Freedom Guardian”, che avrebbero dovuto coinvolgere 17.500 soldati).

Si tratta di una mossa distensiva decisa dopo il faccia a faccia di Singapore: Pyongyang (e la Cina) detesta quelle esercitazioni perché le vede come prove tecniche e dissuasive per un eventuale attacco congiunto al Nord (oltre che come l’affermazione della presenza armata americana nella regione). Non mancano le critiche, perché darebbe troppe concessioni al Nord: per esempio, il senatore repubblicano John McCain, decano dall’Arizona molto ascoltato, ha attaccato la scelta dicendo che “non dobbiamo imporre a noi stessi l’onere di fornire le cosiddette concessioni di buona fede come prezzo perché il dialogo [col Nord] continui”.

Contraccambio: 215 bare militari americane starebbero arrivando al 38esimo parallelo, quello che spacca nord-sud la penisola coreana. Potrebbero servire per raccogliere i resti dei caduti non identificati della guerra degli anni Cinquanta, che Pyongyang ha detto che intende restituire a Washington, sempre nell’ottica della distensione.

Tornando al provvedimento che venerdì Trump ha esteso, si tratta di una misura ormai routinaria, continuativa dal 2008: si chiama appunto “Continuation of National Emergency” nei confronti della Corea del Nord. Un’emergenza nazionale legata, come riporta il testo dell’ordine, connessa “all’esistenza e al rischio di proliferazione di materiale fissile utilizzabile nelle armi nella penisola coreana e alle azioni e alle politiche del governo della Corea del Nord” che “continua a rappresentare una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza nazionale, la politica estera e l’economia americana” – l’emergenza e la sicurezza nazionali sono citate sia perché ormai, dopo gli ultimi test, è stato dimostrato che Pyongyang ha le potenzialità balistiche di raggiungere le coste americane direttamente, sia nei riguardi di quei più di ventimila uomini di personale militare americano che con le rispettive famiglie vivono tra le basi sudcoreano della US Force Korea, a un passo dai missili di Kim.

Quello del provvedimento è certamente un cambio di tono, che, come detto, si collega alle pressioni interne ricevute da parte di gruppi di congressisti che hanno, fin dall’inizio dei contatti, chiesto attenzione, misura, piedi di piombo, al presidente, in un momento delicato: l’estate lancerà il rush finale verso le Midterms, le elezioni per il rinnovo dei seggi al Congresso che stanno creando nervosismo tra partito e amministrazione.

Tra le principali critiche mosse dai più o meno falchi sul meeting: Trump è andato a incontrare Kim senza niente di deciso, niente di fattuale, e ne ha permesso una sorta di riqualificazione, una ripulitura d’immagine e l’elevazione a capo di Stato potabile, in modo quasi gratuito, senza ottenere nient’altro che promesse. Ora, dopo le celebrazioni del vertice storico (la prima volta che un presidente americano in carica incontrava un satrapo nordcoreano), è il momento della severità. Dovuta: davanti al mondo, l’artista del deal non può permettersi di sedersi sul lato debole di un faccia a faccia.

Però, uno dei punti chiave dei colloqui è stato espresso fin da subito da uno dei rappresentanti principali dell’amministrazione, il segretario di Stato, Mike Pompeo, passato come un sordinato guastafeste, mentre in quei giorni il suo capo era impegnato nel ricevere attenzione, photo opportunity eccezionali, e commenti positivi sull’incontro con Kim solo per il fatto che quella stretta di mano fosse avvenuta. Pompeo (che era a Singapore durante l’incontro e poi ha visitato Pechino) ha detto più volte che gli Stati Uniti non faranno passi indietro in anticipo rispetto al programma di denuclearizzazione: il denuke dovrà essere totale e certificabile, e solo allora si inizierà a parlare della rimozione delle sanzioni internazionali (imposte dall’Onu) e americane che pesano come un macigno sull’economia del Nord.

 

coree ikim

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