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Conciliare la necessaria attività dei servizi di informazione per la sicurezza con il bisogno dei cittadini di non vedere violati diritti fondamentali come la riservatezza dei propri dati, sempre più collocati e transitanti in Rete.

Il tema, sempre più cruciale nel dibattito di tutti i Paesi occidentali – Italia compresa – è stato sviscerato stamane nel corso della presentazione del rapporto dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) ‘”Sorveglianza da parte dei servizi di intelligence: garanzie dei diritti fondamentali e mezzi di ricorso nell’Ue. Prospettive e aggiornamento normativo”, seconda parte di un lavoro di approfondimento voluto dal Parlamento Ue a seguito del caso Snowden scoppiato nel 2013.

CHI HA PARTECIPATO

All’incontro, promosso dalla stessa Agenzia e dal Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, sono intervenuti il presidente del Copasir Giacomo Stucchi, Mario Oetheimer della FRA, il direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) Alessandro Pansa, il procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma Giovanni Salvi e il presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali Antonello Soro. Presente in platea una folta rappresentanza di addetti ai lavori e molti componenti del Copasir, tra i quali Rosa Calipari (Pd), Giuseppe Esposito (GAL-UDC) e i pentastellati Vito Crimi, Bruno Marton e Angelo Tofalo.

CHE COSA SOTTOLINEA IL REPORT

Snocciolando gli aspetti salienti del dossier realizzato attraverso diverse interviste, il rappresentante dell’Agenzia Ue ha messo in evidenza ciò che rende meno efficace l’azione degli organismi deputati al controllo delle attività degli apparati d’intelligence: “non avere pieno accesso ai dati raccolti”, ma anche “l’incapacità di utilizzarli in modo pieno”. A detta di Oetheimer, quindi, c’è bisogno di identificare un percorso che renda più efficace questa attività che, se aperta al pubblico, è rilevante nella “promozione della fiducia nell’operato dei servizi segreti” da parte dei cittadini.
Secondo lo studio, per tenere assieme diritto alla privacy e operazioni di controllo servirebbero, tra le altre cose: l’implementazione di norme specifiche che disciplinino le attività degli 007; un controllo indipendente e costante sull’intelligence realizzato da un’autorità dotata di poteri adeguati per agire in caso di violazioni; e rendere possibili ricorsi efficaci per contrastare abusi.

L’INTERVENTO DI PANSA

Tuttavia, ha rilevato il direttore generale del Dis, Alessandro Pansa, pur nella necessità di assicurare la tutela dei diritti dei cittadini è quasi impossibile, per un efficace Servizio di Intelligence, “coniugare segretezza a trasparenza”. Piuttosto, ha rilevato che, nella chiarezza di “strumenti ed obiettivi di azione”, il lavoro dei Servizi deve essere sempre “legittimato a monte e in via preventiva, in modo da garantire la segretezza dell’attività svolta”.
Per quanto concerne, invece, il pericolo che i nuovi sistemi informatici invadano e controllino la vita dei cittadini, il numero uno del Dis ha posto l’accento su come sia sempre più difficile controllare ciò che transita in Rete, vista la predominanza di colossi dal carattere transnazionale. “Negli ultimi anni”, ha evidenziato Pansa a questo proposito, “i Governi sono stati un po’ distratti consentendo a quattro aziende private di possedere il più grosso quantitativo di informazioni al mondo mentre una sola ne consente l’accesso”. Ed è da questo punto che bisogna ripartire.

I RILIEVI DI SORO

A porre in seguito l’accento sulla presunta schizofrenia tra tra diritto europeo e norme statali è stato invece il presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro. “La vera sfida” in un contesto di minacce globali come quella del terrorismo, ha detto, “consiste nel rendere la tecnologia una risorsa tanto per la sicurezza quanto per le libertà, garantendone dunque la sostenibilità democratica e impedendo che essa divenga un fattore competitivo di vantaggio per i criminali rispetto agli inquirenti, solo per la difficoltà del diritto di stare al passo con la rapidità dell’evoluzione tecnologica”.

Soro ha definito come “il nodo da sciogliere” per i sistemi democratici, e proprio “nell’attuale contesto di terrorismo immanente”, quello di “normalizzare l’emergenza e, con essa, la compressione dei diritti e delle libertà che ne consegue”. La ricerca di un equilibrio tra sicurezza e libertà “esclude dunque l’ammissibilità di politiche europee o nazionali che sacrifichino le libertà oltre quanto strettamente indispensabile per la salvaguardia della sicurezza di ciascun cittadino. E quello dell’indispensabilità e proporzionalità delle limitazioni della libertà per esigenze di sicurezza è un tema su cui la Corte di giustizia ha costruito l’architrave del rapporto tra strumenti investigativi e protezione dati”.

Eppure, ha sempre notato Soro, oggi sembra di assistere ad una sorta di “schizofrenia o, quantomeno asimmetria tra normative nazionali e diritto europeo che deriva dalla sottrazione della sicurezza nazionale dal novero delle materie di competenza dell’Ue. È questo – ha notato Soro – l’ultimo terreno su cui resiste ancora il monopolio statale e su cui, dunque, gli Stati membri godono di un margine di discrezionalità. Che spesso esercitano cedendo alla tentazione di strumentalizzare la percezione di insicurezza, comprimendo le libertà dei cittadini in nome della lotta al terrorismo”.

LE CRITICHE ALLA DATA RETENTION

Soro ha anche parlato della recente norma italiana che ha ammesso la conservazione dei dati di traffico telefonico, telematico e delle chiamate senza risposta indifferentemente per sei anni, sostenendo che “pare difficilmente compatibile con quel principio di proporzionalità tra esigenze investigative e protezione dati sancito dalla Corte di giustizia e declinato, tra l’altro, come esigenza di differenziazione della conservazione in ragione del tipo di dato, del contesto investigativo e della gravità dei reati da accertare”. Il Garante della Privacy ha espresso in particolare “riserve sulla reale utilità di una conservazione, protratta così a lungo nel tempo, di una quantità di dati così elevata e sicuramente assai vulnerabile, viste – ha concluso – anche le carenze che spesso caratterizzano i sistemi di sicurezza dei gestori”.

LE PAROLE DI SALVI

Anche il procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma, Giovanni Salvi, ha posto l’accento sui big del web, rimarcando che “abbiamo ormai costruito uno scenario di garanzie rispetto alla violazione di uno Stato, ma oggi il pericolo viene da entità sovranazionali rispetto alle quali siamo impotenti”. Sarebbe invece “opportuno chiarire”, ha aggiunto, “chi dispone di quali dati e con quali garanzie”, considerando che la stessa legge italiana “non consente in Italia la raccolta massiva di dati”.

IL BILANCIO DI STUCCHI

Il tema affrontato da Salvi è stato toccato anche dal presidente del Copasir, il senatore Giacomo Stucchi, che ha colto l’occasione per fare anche un bilancio dell’attività del Comitato al termine della legislatura. “Ogni anno”, ha sottolineato evidenziando i limiti della sorveglianza di massa, “viene prodotta una mole di dati che è la somma di tutte le informazioni generate negli anni precedenti. Parliamo di numeri enormi. Pensare di controllarli tutti è impossibile”, ha detto, non solo per le ovvie implicazioni etiche, ma anche “perché non serve solo raccogliere i dati, ma anche analizzarli. E, in questo senso, è molto più utile circoscrivere raccolta per proteggere i cittadini e allo stesso tempo tutelarli”.​

Così l'Intelligence può coniugare sicurezza e privacy. Rapporto Ue

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