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Quando nel maggio del’48 vennero istituite le Forze di difesa israeliane, queste erano piccole, scarsamente equipaggiate, ma subito in guerra, e in mancanza di armi sufficienti o di una capacità industriale interna per produrle, il neonato esercito fu costretto ad accontentarsi di qualunque cosa su cui potesse mettere le mani. Questo spirito di improvvisazione, combinato con la volontà di difendere quella Terra per duemila anni sognata, portò l’Idf a una vittoria decisiva nella prima guerra arabo-israeliana, in cui lo stato ebraico sconfisse l’intera Lega Araba.

Oggi, quello stesso spirito di sopravvivenza, eternamente presente in Israele, ha in parte reso l’Idf l’esercito più potente del Medio Oriente e tra i più capaci e abili al mondo. In The Art of Military Innovation, Edward N. Luttwak e Eitan Shamir tracciano le radici di questo costante e spesso inspiegato successo.

Innanzitutto, spiegano gli autori, ciò che distingue l’Idf, è la sua singolare struttura organizzativa. Fin dalla sua nascita, infatti, è stato l’unico esercito a servizio unico al mondo, comprendendo forze aeree, navali e terrestri, raccolte in un unico organismo istituzionale. Questa struttura unica, abbinata a un corpo di giovani ufficiali, ha portato un’organizzazione agile, facilmente propensa al cambiamento, piuttosto che legata alla tradizione, e al contempo, invece di ricreare il modello delle forze armate occidentali, con eserciti, marine e forze separate, la neonata Idf optò, appunto, per un unico servizio con un solo comandante. Un vantaggio, fanno notare gli autori, anche dal punto di vista economico, dal momento in cui i fondi per la ricerca e lo sviluppo non sono stati diluiti tra corpi separati, bensì concentrati in un’unica forza.

Ma il punto fondamentale da cui partire, e da cui infatti partono i due autori, riguarda la posizione geografica di Israele, che sin dalla sua fondazione è sempre stata circondata di nemici, combattendo cinque grandi guerre convenzionali e molte altre battaglie minori. Lo spettro della guerra, sostengono Luttwak e Shamir, accelera, infatti, l’innovazione.

Consideriamo il caso del sistema di difesa missilistico Iron Dome. Durante l’attacco del 7 ottobre e nei mesi successivi, Hamas ha lanciato più di 10.000 razzi sul territorio israeliano, ma solo poche persone sono morte a causa di questi lanci. Questo proprio grazie a questa cupola di ferro in grado di tracciare i razzi in arrivo, intercettando quelli diretti verso aree abitate o verso zone comunque delicate. Fu Hezbollah a costringere Israele a sviluppare questo sistema dopo che il partito di Dio fece partire migliaia e migliaia di razzi contro lo stato ebraico nel 2006. E ciò che sorprende è la tempistica. La maggior parte dei progetti missilistici, infatti, richiedono dai 15 ai 20 anni per giungere a compimento: Israele è riuscito a creare Iron Dome in quattro anni, dal 2007 al 2011, grazie anche ai finanziamenti del governo statunitense.

La storia dell’invenzione di Iron Dome dimostra anche come il confine tra iniziativa e insubordinazione sia spesso labile. Dopo la morte nel 2004 di un bambino tramite un Qassam che colpì la città di Sderot, poco distante da Gaza, un ricercatore militare cominciò a perseguire l’obiettivo di costruire un dispositivo di difesa aerea. Quel ricercatore, di nome Danny Gold, capo di un’agenzia di armi dell’Idf, portò avanti con incredibile tenacia la progettazione e la produzione del sistema, nonostante le forti resistenze (anche degli americani) di non farlo, perché troppo sperimentale e costoso. Ma Iron Dome alla fine venne finanziato e completato. E oggi protegge ogni singolo cittadino israeliano.

Un altro caso simile fu quello riguardante, durante la guerra del Kippur, Ariel Sharon, allora comandante delle Idf, il quale disobbedì agli ordini guidando le sue truppe attraverso il Canale di Suez e in territorio egiziano, con un’operazione che divenne un successo. Sharon divenne un eroe e negli anni duemila diventò anche primo ministro. Insubordinazione dovuta dal coraggio, coraggio dovuto anche dalla paura con cui, sin dalla nascita, convive il popolo israeliano.

Ciò che, inoltre, sottolineano gli autori, risulta decisivo, ed è l’innovazione nell’uso degli strumenti progettati. Perché anche gli Stati Uniti avevano, ad esempio, aerei senza pilota, ma fu Israele a progettare il primo modello di drone esca al mondo. L’Idf ha, dunque, promosso alcuni dei più importanti progressi nella tecnologia militare degli ultimi settant’anni, dal primo utilizzo di droni al già citato sistema di Iron Dome, sino alla prima arma laser, Iron Beam. È stato un processo rapidissimo, ma comunque in linea con lo sviluppo progressivo della società israeliana.

Nel 1962, Israele era, di fatto, un’economia prevalentemente agricola, con praticamente nessuna industria elettrica o meccanica, e una popolazione inferiore alla metà di quella di Sicilia. Nell’arco di quasi dieci anni Israele è diventata un modello nel settore tecnologico e, di conseguenza, militare: ha sviluppato carri armati di livello mondiale, pionieristici sistemi di difesa aerea, iniziando anche a vendere armi a chiunque: dalla Cina, all’India, sino ad arrivare agli alleati di sempre, gli Usa.

Secondo Luttwak e Shamir un’altra caratteristica che fa la differenza è, poi, l’egualitarismo, che a sua volta genera una cultura rilassata all’interno dell’Idf. I soldati si rivolgono, ad esempio, agli ufficiali con i loro nomi e le donne ricoprono ruoli come istruttori di combattimento che in altri eserciti vengono ricoperti esclusivamente da uomini. Tutto questo favorisce un clima decisamente disteso.

Vi è, poi il tema dei riservisti. Ogni cittadino maggiorenne fa la sua parte per proteggere il Paese, venendo richiamato ogni anno, anche nei tempi in cui non vi sono guerre in corso. Questa situazione aumenta l’amore e il senso di appartenenza nei confronti del proprio Stato, due sentimenti che in Occidente via via stanno sempre più scomparendo.

Un altro motivo, poi, per cui l’esercito israeliano eccelle nell’innovazione è anche la relativa giovinezza dei suoi membri. Tsahal promuove, infatti, rapidamente il personale militare, e Luttwak e Shamir all’interno del libro evidenziano come gli ufficiali dell’Idf tendenzialmente, dunque, hanno dieci anni meno dei loro corrispettivi americani o europei, aspetto che incentiva sicuramente la carriera militare.

Le analisi che questo incredibile volume, dunque, pone, permettono di comprendere, attraverso mirati approfondimenti, rivelazioni e ricostruzioni storiche, le ragioni e i motivi per cui oggi l’Idf sia considerato, a ragione, uno degli eserciti più forti al mondo, ponendo in parte fine al quesito che da decenni l’opinione pubblica di tutto il pianeta si pone, ovvero: qual è il segreto dell’esercito israeliano?

I segreti dell’esercito israeliano svelati da Luttwak e Shamir

Di Francesco Spartà

Ma come fa uno Stato con meno di 10 milioni di abitanti e con una superficie di appena 22 mila chilometri quadrati ad avere uno degli eserciti migliori al mondo? Uno stratega militare di fama mondiale come Edward Luttwak e il direttore del Centro Begin-Sadat per gli studi strategici, Eitan Shamir, che in passato ha anche ricoperto il ruolo di capo della Dottrina della sicurezza nazionale presso l’Ufficio israeliano per gli affari strategici, spiegano il successo delle forze armate israeliane nel loro libro “The Art of Military Innovation”

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