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L’episteme, secondo Platone è il sapere acquisito contrapposto all’opinione del singolo. Il grandissimo filosofo ci fa navigare nelle acque rassicuranti della certezza, figlia della sperimentazione, dello studio e dell’applicazione che ne consegue: in una parola della competenza. Epistocrazia, parola di nobile lignaggio ed antica etimologia ma di nuovo conio nel dibattito pubblico dei contemporanei, sta ad indicare, dunque, il governo dei competenti, di coloro, cioè, i quali sono in grado di maneggiare il sapere e di agire  in modo non dilettantesco. Un largo approfondimento sul tema l’ha fatto di recente Jason Brennan, un politologo americano della Georgetown University di Washington, che ha l’età che aveva Renzi quando andò a palazzo Chigi, con un libro tradotto in italiano con un titolo eversivo: “Contro la democrazia” (Luiss Press University, 2018).

Il saggio, che si giova di una prefazione di Cassese, considera l’evidenza della difficoltà di coniugare il valore assoluto del voto universale con l’aggressione della fake news e il parallelo ridimensionamento del ruolo degli agenti formativi come la scuola o i prodotti dell’editoria tradizionale. La domanda sull’uguaglianza del voto che le Costituzioni democratiche riconoscono (per la nostra l’art.48) sorge spontanea: è giusto che un elettore che va al voto dopo aver meditato la sua scelta attingendo informazioni, verificando la veridicità delle proposte, confrontando programmi, partecipando consapevolmente al processo preliminare della campagna elettorale, insomma esercitando un ruolo di cittadinanza attiva, abbia lo stesso peso e la stessa influenza politica di un elettore disinformato, che costruisce la sua opinione politica sulle notizie false diffuse dall’unica fonte per lui attingibile (per scelta) rappresentata dai social network in linea con le istanze populistiche da lui coltivate? Secondo l’autore non è affatto giusto perché in questo modo si afferma il paradosso di una maggioranza inconsapevole che soverchia una minoranza consapevole. Insomma, per restare ancora con i richiami platonici, l’avvento della oclocrazia, la forma deteriore della democrazia affidata alle masse informi. Il tema ha una sua suggestione perché richiama la necessità di sostenere il cittadino per consentirgli esprimere le sue scelte elettorali con piena consapevolezza, superando così gli ostacoli che possono  pregiudicare la sua partecipazione all’organizzazione politica del paese (art.3, ultimo comma della nostra Costituzione).

In fondo non tutte le democrazie moderne fanno coincidere la cittadinanza con l’elettorato attivo: si pensi agli Stati Uniti, dove per acquisire il diritto di voto occorre che il cittadino esegua la registratione, procedura cui si sottopone solo la metà degli aventi diritto. Certo, la registrazione non è una prova d’esame, ma solo un onere burocratico, tuttavia implica un interesse, una volontà, una partecipazione. Nessuno può avere nostalgia per la stagione del suffragio ristretto, quando, alla fine dell’800 ad eleggere 508 deputati erano 240 mila italiani selezionati per censo, ma qualcosa si deve pur fare per lasciare meno esposto il corpo elettorale alla strategia dell’imbonimento delle fake news. Forse agire sul pedale dell’informazione da parte del servizio pubblico, evitando la torsione alla spettacolarizzazione, aiuterebbe. Forse aiuterebbe anche una seria educazione civica nelle scuole, come materia curriculare: trovo francamente paradossale che una parte grandissima della popolazione chieda – giustamente – che gli immigrati richiedenti la cittadinanza dimostrino di conoscere la nostra cultura e le nostre leggi quando la nostra legge fondamentale, la Costituzione, è sconosciuta nelle scuole della Repubblica (e non parlo della conoscenza della grammatica italiana da parte dei nostri politici). Sì, un po’ di cultura aiuterebbe e farebbe cittadinanza attiva. Non chiediamo il governo degli Epistocratici. Ma almeno quello di chi conosce la Costituzione e capisce che non può dire che fa il candidato premier se in Italia il premierato non c’è.

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