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Quando Donald Trump ha deciso, coerentemente con le promesse elettorali, di sfilare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima del 2015, la speranza che l’assetto del Cop21 potesse restare in piedi è cominciata a svanire. Il ritiro degli americani ha davvero messo una parola fine alla cooperazione internazionale per la tutela ambientale? A questa domanda hanno cercato di rispondere l’ammiraglio Conrad Lautenbacher, Ezio Bussoletti, Antonio Cianciullo, Francesco Sperandini e Raffaele Tiscar intervenendo al Centro Studi Americani nell’incontro “The climate change beyond the Paris agreement”. La risposta non è univoca. Non sfugge a nessuno che l’assenza del più grande inquinatore del globo, se non spoglia del tutto l’accordo di significato, quantomeno ne mina le basi.

Lautenbacher, che è stato a lungo vice ammiraglio della Marina americana, corpo in cui ha servito per 40 anni, ma soprattutto fu scelto dal presidente George Bush Jr per guidare dal 2000 al 2007 una delle agenzie federali chiave per la tutela dell’ambiente, la National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa), resta ottimista. Era presente a Parigi assieme agli altri scienziati coinvolti, e conosce pregi e lacune dei patti parigini sul clima. Tra i primi, l’obiettivo ambizioso di “limitare a meno di due gradi centigradi il cambiamento climatico, cercando di restringerlo nel lungo periodo a 1,5 gradi”. Restano però delle incongruenze di fondo, specialmente dal lato dell’attuazione: come imporre ai Paesi il rispetto delle regole, se i contributi sono “determinati a livello nazionale, e peraltro su base volontaria”? Per di più l’ammiraglio, che fa parte a pieno titolo del mondo scientifico, ma adesso è tornato nel settore privato, divenendo Ceo di Geo-Optics, sa quanto è importante tenere fisso lo sguardo sul quadro generale, non solo sui cambiamenti climatici. “La sostenibilità conta di più del cambiamento climatico” ha spiegato alla platea del Csa, per poi aggiungere, parafrasando un celebre gioco di parole di un ex direttore della Nasa, “there is no Plan(et) B”.

Ezio Bussoletti, fisico a capo della delegazione italiana nel comitato di esperti Onu GGIM, condivide con l’ammiraglio le perplessità sull’accordo di Parigi, che è un punto di inizio, non di approdo finale, perché, “a prescindere da tutto, non è stato poi un gran successo”. La debolezza sta, secondo Bussoletti, nel meccanismo di controllo messo in piedi dai firmatari: “Non c’è alcun controllo per cinque anni. Dopo di che, se un Paese non ha raggiunto i risultati prefissati, viene inserito nella lista della vergogna”. “Parigi è un fallimento” ha sentenziato invece Antonio Cianciullo, firma di Repubblica, ricordando come l’accordo di Kyoto del 1997, che pure fu definito “inutile e farlocco”, si era posto come obiettivo una riduzione del 5% delle emissioni serra. Entrambi gli speakers hanno però spezzato una lancia a favore del Cop21. Se i risultati sono a dir poco modesti, c’è un dato politico da registrare. “Per vent’anni i precedenti Coop si sono occupati degli effetti e non delle cause” ha spiegato Bussoletti, compiacendosi perché “a Parigi si è capito che bisogna agire sulle cause a prescindere dagli effetti”. Insomma, Parigi è la prova, ha aggiunto Cianciullo, che ormai “non c’è più un ragionevole dissenso intorno a questi temi, mentre c’è un’opinione pubblica mondiale che si fa sentire”.

Esiste poi un percorso italiano ed europeo all’interno del Cop21, non meno privo di inefficienze. È il caso dell’Emission Trading System europeo, ha commentato al Csa il capo di Gabinetto del ministero dell’Ambiente Raffaele Tiscar: “Il sistema doveva garantire, secondo un’applicazione mercantilistica, la ripartizione dei costi sulla base del settore produttivo, ma non ha funzionato”. Ridurre le emissioni non è compito facile in una democrazia rappresentativa, ha spiegato Francesco Sperandini, Ceo del Gestore dei Servizi Energetici, società per azioni che ogni anno eroga 16 miliardi di euro per progetti di sviluppo sostenibile. “Oggi siamo chiamati ad adottare scelte dolorose per benefici che vanno al di là del mandato elettorale del governo e del parlamento” ha aggiunto Sperandini, per poi ammettere con amara ironia che “le democrazie sono lo strumento meno adatto per combattere il cambiamento climatico”.

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