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Kurt Volker è l’inviato speciale che il presidente Donald Trump ha scelto per pacificare la crisi ucraina: è incaricato di tessere contatti prolifici con la Russia, che sul conflitto ucraino ha in mano il pallino del gioco, ma lavora con l’acqua alla gola, visto che il suo diretto superiore, il segretario di Stato Rex Tillerson, ha apertamente detto che intende tagliare le figure come la sua dall’enorme organigramma del dipartimento (anche se Volker è stato uno dei pochi nominati nell’era Tillerson). Da quando è stato scelto, Volker ha parlato soltanto una volta con i media americani, un’intervista corposa concessa a Politico in questi giorni, in cui ha fatto il punto della situazione nell’est dell’Ucraina (dove, anche se l’argomento è uscito dall’attenzione della cronaca e procede stanco, la scontro tra separatisti aiutatati dai russi e governo centrale è ancora in corso dal 2014, ossia quando Mosca decise di prendersi la Crimea, la prima acquisizione di questo tipo in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale, e innescare una miccia dalle ripercussioni globali).

PUTIN HA IL PALLINO IN MANO

Il messaggio centrale che Volker lascia è uno, semplice e diretto: la guerra continuerà, tutto è in mano ai russi e sono loro a decidere quando smetterla. Non lo faranno adesso. Corollario: per gli Stati Uniti parlare con Mosca è molto difficile in questo momento, e questo sebbene Trump si sia prefissato il ricongiungimento con la Russia come macro-obiettivo di politica estera fin dalla campagna elettorale. Quello che dice Volker altro non è che una conferma: sia sul piano della situazione sul campo, sia per quel che riguarda i livelli politici soprastanti. Mosca e Washington non sono mai state così distanti, Trump predica un feeling (ricambiato con astuzia) con Vladimir Putin, ma di fatto, per esempio, si trova costretto ad avallare le decisioni del Congresso su nuove sanzioni, alzate qualche mese fa sia in risposta alle interferenze russe durante le presidenziali, sia come condanna a Mosca per il disinteresse (o meglio, l’interesse personale) con cui sta affrontando la crisi dell’Ucraina orientale e non sta muovendo niente per la pacificazione decisa dai meccanismi internazionali innescati a Minsk più di due anni fa.

LA GUERRA CONTINUERÀ

Volker dice che le prospettive di pace “sono talmente basse” che “almeno all’80 per cento” anche il prossimo anno continueranno gli scontri armati – ha osservato “cupamente”, fa notare la giornalista Susan Glasser che ha curato l’intervista. Glasser sottolinea che parlare con l’inviato americano è stato utile per avere uno spaccato chiaro di ciò che l’amministrazione pensa dei rapporti con la Russia (perché quello che ha detto trova varie conferme tra alti e altri funzionari): Volker è “profondamente critico nei confronti di Putin e certamente non influenzato da lui; preoccupato che possano essere fatti pochi o nessun progresso sulle questioni chiave e che il fondo delle relazioni USA-Russia non sia stato ancora raggiunto dopo le elezioni dell’ultimo anno, le accuse di spionaggio, le espulsioni diplomatiche e la chiusura del consolato”.

FARE LA PACE È DIFFICILE

Il delegato racconta che è lo stesso Trump, a questo punto, a dire che “vorremmo andare d’accordo con la Russia”, ma “quello che fanno [i russi] lo rende davvero difficile”. Il Trump speranzoso (che ancora spera di mantenere una delle promesse elettorali che lo ha reso noto), si scontra con quello di governo. Il giorno precedente a quando l’intervista è stata raccolta, Trump e Putin si erano parlati al telefono: le note ufficiali raccontavano di un colloquio su larga scala (Ucraina inclusa sugli argomenti), ma il giorno ancora precedente Putin aveva ospitato il rais siriano e messo effettivamente fine alla guerra civile in Siria per come l’abbiamo conosciuta finora. Una fine che spariglia gli equilibri regionali e decisa in un processo dal quale Mosca ha accuratamente escluso Washington.

I PASSI DI VOLKER

Volker ha una visione classica sulla Russia: ha ambasciato l’amministrazione Bush alla Nato, ha lavorato per un falco anti-Putin come John McCain (senatore storico, attualmente molto contrario a Trump), segue una linea classica di contrasto e concorrenza di scuola repubblicana, per questo piace al partito. Un decina di giorni fa s’è incontrato a Belgrado con Vladislav Surkov, il suo omologo dal Cremlino: alla domanda “che cosa ha ottenuto?” ha risposto “niente”, quel loro terzo colloquio anzi è stato “un passo indietro”, secondo la sua lettura. S’è presentato al russo con un trattato da 29 paragrafi, e l’inviato di Mosca ne ha accettati solo tre (e marginali). La Russia è tornata al punto di partenza sull’Ucraina, e secondo Volker non c’entrano solo questioni contingenti, ma è conseguenza degli attuali rapporti.

I RAPPORTI MOSCA/WASHINGTON

Mosca è molto irritata anche perché durante il viaggio asiatico di Trump, nonostante a un certo punto i due leader si siano trovati nello stesso luogo contemporaneamente (al Forum di Cooperazione Economica Asia-Pacifico in Vietnam), non hanno potuto tenere un incontro riservato e per i russi è stata colpa americana. L’elefante nella stanza è la vendita di armi: sia il dipartimento di Stato che il Pentagono hanno raccomandato alla Casa Bianca di dare semaforo verde alla vendita di armi americane – in particolare sistemi anti-carro Javelin – a Kiev per un totale di 47 milioni di dollari. Volker anche sostiene l’idea, che per la Russia però è una sorta di dichiarazione di guerra statunitense che congelerebbe ancora di più le relazioni.

L'inviato di Trump per l'Ucraina dice che tutto è in mano ai russi e la guerra continuerà

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