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Un programma di governo sul quale costruire un’alleanza politica in grado di ottenere la fiducia parlamentare è qualcosa di diverso da un programma elettorale, ma non di molto. Si indicano le direzioni di marcia, i provvedimenti chiave, le priorità. Così sembra essere il programma economico, di cui si conoscono ancora solo le indiscrezioni al momento di scrivere, contenuto nel “contratto alla tedesca” che il Movimento Cinquestelle e la Lega si apprestano a sottoscrivere per formare un governo. Un giudizio preliminare si dovrebbe quindi limitare a valutarne la coerenza strategica più che la cosiddetta compatibilità con i mezzi di bilancio a disposizione. Non perché essi non siano limitati, ma per due motivi fondamentali.

Il primo è che il costo delle riforme, o più modestamente dei provvedimenti annunciati, dipende dalla loro specifica configurazione una volta che l’annuncio si dovrà tradurre in norme. Con tutto il rispetto per le competenze riunite intorno al tavolo politico delle trattative, poi le norme attuative dei propositi si dovranno scrivere con le competenze istituzionali in grado di misurare effetti di bilancio e coerenze legislative di sistema. E in genere la realtà delle cifre ridimensiona spesso la visione. Il secondo è che fino ad oggi non è emerso un accordo chiaro su quali siano i paletti di bilancio che si vorranno rispettare. In altri termini, se le compatibilità di bilancio del programma dipenderanno da un improbabile mutamento delle regole europee (abbiamo già avuto un governo che è partito con il proposito di battere i pugni sul tavolo a Bruxelles) o se queste regole saranno forzate.

Se andiamo quindi alla coerenza strategica, la prima questione sollevata dalla maggioranza dei commentatori è il contrasto potenziale tra l’obiettivo del reddito di cittadinanza e quello della flat tax, i due provvedimenti simbolo dei partiti che si accingono a firmare il contratto di governo. Essi rispondono, si dice, a due visioni diverse del modo in cui si dovrebbe uscire dalla crisi di bassa crescita dell’Italia. In realtà anche qui è il particolare e specifico mix dei due che determinerà il risultato.

Non sappiamo ancora cosa sarà questo reddito di cittadinanza e, quindi, le risorse richieste e l’ampiezza del pubblico dei beneficiari. Esso sembra oscillare tra una indennità di disoccupazione un poco rafforzata, (e tale da avvicinarla a sistemi già presenti in altri paesi europei, come ad esempio in Francia, certamente più generosa dell’Italia con chi perde il lavoro) e magari estesa a chi è in cerca di primo impiego, e un provvedimento, improbabile, tale da configurare una società in cui una parte della popolazione produce e l’altra consuma. Poiché l’oscillazione di cui parliamo è solo nel dibattito politico-filosofico, mentre la realtà, se il governo si farà, ci offrirà una versione prossima alla prima ipotizzata, non si vede un contrasto pregiudiziale con una politica orientata alla crescita e alla sfida della globalizzazione. D’altra parte, ristrutturazioni e innovazione tecnologica richiedono transizioni da sostenere sul piano sociale.

Più interessante è l’obiettivo della flat tax, che coincide con l’obiettivo di riduzione della pressione fiscale come condizione di una politica di crescita, soprattutto se si vede questo obiettivo non tanto come un modo per aumentare il reddito spendibile di famiglie e imprese, e quindi sostenere la domanda interna, ma come un modo per aumentare il rendimento dei fattori produttivi, lavoro e capitale, e quindi anche degli investimenti. Naturalmente, conterà anche in questo caso la sua declinazione specifica per valutarne la sostenibilità. Si parla di partire con una doppia aliquota. La questione è tecnicamente complessa ma ciò che conta è avviare il processo di semplificazione del sistema e la sua sostenibilità dipende non tanto dall’aliquota unica o le due aliquote, ma dal livello delle aliquote. La scommessa, secondo i sostenitori della riforma, è che essa porti ad effetti benefici sulla crescita e quindi generi quel gettito fiscale aggiuntivo che dovrebbe compensare, almeno in parte, anche il costo iniziale della riduzione delle aliquote. Sarebbe preferibile, tuttavia, contare meno sulle scommesse e far partire la riforma con un livello di aliquota, o di aliquote, che consenta in via transitoria di minimizzare la perdita di gettito, per poi ridurle una volta assicurati gli effetti sulla crescita. Inoltre, non si vede perché non si debba far scattare le clausole di salvaguardia di aumento dell’IVA per finanziare parte consistente dell’operazione.

Vi è la “vulgata”, molto sostenuta anche a livello istituzionale, che serva subito un governo per impedire che queste clausole di aumento dell’IVA vengano attivate, perché ciò sarebbe recessivo. La tesi non mi sembra sostenibile a meno che si pensi di impedire l’aumento delle aliquote IVA creando altro deficit. Poiché non è questa, credo, l’intenzione di chi sostiene questa “vulgata”, impedire l’aumento dell’Iva recuperando risorse da un’altra parte, con tagli di spesa o aumenti di altre tasse, non muta di certo il presunto effetto recessivo. Al contrario, come ho sostenuto da oltre un decennio e non da solo, ritengo che in Italia si debba riequilibrare il peso relativo delle imposte dirette e di quelle indirette spostando gettito dalle prime alle seconde. Si tratta di una scelta di policy sostenuta da molto tempo anche dalle raccomandazioni europee e dell’Ocse perché favorevole alla crescita e non si capisce perché non si possa approfittare dell’introduzione di un sistema di flat tax per attuare un’operazione vantaggiosa nel suo complesso.

Per tornare ad altri punti del programma, vi è l’intenzione della “correzione” della riforma Fornero. Allo stato attuale, una stima del costo mi sembra ancora velleitaria se non si chiarisce il meccanismo, anche perché l’abitudine di denunciarne l’impatto cumulandone il costo per un lungo periodo di tempo non contribuisce alla chiarezza in termini di impatto che è importante quanto il lungo periodo.

Più preoccupante il fatto che non sia affatto chiaro quale sarebbe l’indirizzo del governo di coalizione che si sta formando sui temi di politica industriale (vedi l’imbarazzante caso Ilva) e sul sistema di controlli giudiziari e para-giudiziari che assieme al codice degli appalti stanno paralizzando ogni velleità di attivazione degli investimenti pubblici, pur da tutti auspicati. Si tratta di temi altrettanto cruciali, se non di più, rispetto a quelli più commentati.

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