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Questa campagna elettorale è caratterizzata da antichi e nuovi ingredienti ideologici. Non c’è nulla di strano in sé, anche se era da tempo che certe tematiche non entravano in modo così diretto nel dibattito politico.

Una ragione certamente deriva dal contesto generale odierno che vede messe in discussione certezze che perfino in un recente passato erano verità consolidate: l’Europa, lo Stato, le identità nazionali, la democrazia, eccetera.

Questo dato offre uno spiraglio di luce su uno dei motori scatenanti delle ideologie: le minacce verso valori considerati normalmente acclarati, nonché il bisogno di difenderne l’essenza raccogliendo consenso in modo opposto, contrario e altrettanto radicale.

Sembra singolare altrimenti cogliere il motivo per cui rimandi ovvi all’antifascismo diventano fattori aggreganti e divisori, almeno quanto le rivendicazioni che atti di follia possono fare ad un’ideologia ormai sommersa nella storia e nel tempo, come è, fortunatamente, il fascismo.

Occorrerebbe, nondimeno, non dimenticare mai che l’apologia di una dittatura razzista e sostanzialmente antidemocratica è un reato e un atto sbagliato, ma è improprio e squallido anche l’uso retorico dei valori antifascisti, i quali, gettati nella mischia da parata, finiscono per essere banalizzati o addirittura trasformati involontariamente in disvalori.

Questo perché la nostra Repubblica è certamente stata espressione dell’antifascismo, ma è molto importante, ben oltre quell’origine storica, valorizzarne la premessa costituzionale che contiene e mantiene in vigore una sintesi di ideali democratici sempre vivi, ben al di là di antiche e nuove contrapposizioni ideologiche che si verificano puntualmente e ricorsivamente.

D’altronde si deve continuare a studiare e a capire il ventennio fascista, inserendolo nel quadro più ampio dei nazionalismi e vedendolo nella sua parabola tragica dell’Italia del Novecento, ponendolo in riferimento ad altri fenomeni analoghi del periodo verificatisi nella Germania nazionalsocialista, nella Spagna franchista, nel Portogallo salazariano, nella Grecia dei Colonelli, e così via.

Il legame, infatti, tra i fascismi e i nazionalismi, negli anni Venti, è stato molto forte, sebbene i due fenomeni non siano sovrapponibili. E poiché oggi un certo nazionalismo sta tornado in auge, è opportuno conoscere quel passato per non ripetere i medesimi errori, sebbene tutto ciò non sia se non una speranza, come ben si sa.

In modo particolare andrebbe ricordato che il nazional-fascismo nacque allora inseguendo un particolarismo comunitario opposto all’universalismo umanitario ideologicamente promesso dal marxismo rivoluzionario: la Prima guerra mondiale, da un lato, e la Rivoluzione Bolscevica, dall’altro, hanno poi fatto il resto.

Il primo evento fece emergere una guerra tra Stati nazionali nel cuore dell’Europa. Il secondo portò sulla scena orientale la prima grande dittatura comunista, violenta e crudele, ispirata dalle idee egualitarie di Karl Marx. Senza, infatti, la tragedia del primo dopoguerra e senza il pericolo dell’espansione in tutta l’Europa occidentale della paura di una rivoluzione implacabile e totalitaria come quella sovietica, il fascismo, così come lo abbiamo conosciuto, non sarebbe esistito.

È pertanto corretto dire che le dittature razziste e xenofobe sono state il male assoluto solo se vi includiamo come fenomeno inseparabile la dittatura comunista.

Tra l’altro, è doveroso aggiungere che dopo la Seconda guerra mondiale, quando ormai le autocrazie di estrema destra erano state debellate, il vero, grande e assoluto incubo è rimasto proprio il blocco sovietico, e il connesso rischio che la nostra fragile democrazia scivolasse in una dittatura collettivista, illiberale e antinazionale come quella di Mosca e del Patto di Varsavia.

Dobbiamo pertanto parlare di antifascismo come valore costituzionale, ma dobbiamo anche parlare dell’anticomunismo come pilastro atlantico che ha salvaguardato la nostra libertà e il nostro benessere nazionale.

Il merito storico della Dc è stato, dal 1945 al 1992, di garantire con la sua centralità che l’Italia potesse essere un Paese in grado di ricostruirsi, crescere e adempiere al mandato europeo della nostra Costituzione, insieme agli altri Paesi della Nato, con gli Stati Uniti, e in opposizione alla dittatura marxista.

Sicuramente oggi non vi è alcun rischio di comunismo. E a maggior ragione non esiste alcuna ragion d’essere di intravvedere un pericolo fascista all’orizzonte, semplicemente perché, nel secondo dopoguerra, l’Italia non ha avuto più bisogno di rinunciare alla libertà e ai diritti personali, neanche quando la forza del più grande partito comunista occidentale rischiava di diventare maggioritario nel Paese, com’è accaduto alla metà degli anni ’70.

È importante, di conseguenza, stare attenti, vigilare su forme involutive di nazionalismo, in questo momento sollecitate da fenomeni migratori incontrollati e dall’euroscetticismo, evitando però di cavarsela con la rievocazione univoca dell’antifascismo. Dentro l’antifascismo, infatti, non si nascondevano soltanto volontà democratiche, ma anche intenzioni totalitarie e rivoluzionarie molto, molto rischiose, sfociate persino nel terrorismo violento degli anni di piombo.

Non è vero, d’altronde, che i due grandi totalitarismi sono stati lo stesso. È vero però che avevano in modo opposto una medesima concezione violenta della politica e un’identica finalità antidemocratica. Inoltre il più forte argomento da sempre presente nella letteratura ideologica del fascismo era esattamente l’anticomunismo. Quindi o siamo in grado di dire che i due fenomeni sono stati entrambi iatture disumane, per fortuna uno solo attuatasi nel nostro Paese, oppure l’antifascismo resta vuota retorica o una forma autoindotta per assolversi da responsabilità ideologiche altrettanto gravi e pericolose, da cui ci siamo stati salvati grazie ad un ferreo anticomunismo di tipo democratico e liberale.

contratto, italiani

Fascismo, antifascismo e l’ombra rimossa del comunismo

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