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Con tutto il rispetto, la comprensione e persino la simpatia che gli sono quasi dovute per l’ossessione che ne hanno certi magistrati di prima linea, rigorosamente al minuscolo, Silvio Berlusconi ha un po’ troppo sfidato gli avversari, ma anche gli amici, prospettando l’arrivo a Palazzo Chigi col suo aiuto, la sua protezione e chissà che altro di un generale, per quanto in pensione e degnissima persona, per carità. L’esagerazione rimane anche dopo la precisazione di volerne fare solo “una persona chiave” della nuova compagine ministeriale.

Un generale alla guida di un governo, o di cui ha le chiavi, mi fa un po’ venire i brividi. Passi per un generale o un ammiraglio al vertice del ministero della Difesa di un governo tecnico, una tantum, come è accaduto negli anni passati con Mario Monti a Palazzo Chigi. Ma un generale alla guida, o con le chiavi di un governo politico, per quanto formato – nei progetti di Berlusconi – da 20 signori e signore scomodate dalla cosiddetta società civile e solo otto dalla società politica, che sembrerebbe a occhio e croce un pò meno civile dell’altra, secondo uno schema o un modo di ragionare che per i miei gusti sa troppo di grillismo, mi sembra sinceramente una enormità.

Mi immagino il salto che avrà fatto sulla sedia, ad ascoltare e a leggere di questa ipotesi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che ai generali, per carità, è abituato per la sua passata esperienza alla guida del ministero della Difesa e per i consiglieri e consulenti d’alto grado di cui si avvale anche al Quirinale quando tratta questioni militari e di sicurezza, ma dubito assai che muoia dalla voglia di nominarne uno presidente del Consiglio, o quasi. E tocca a lui, solo a lui, decidere queste cose, per quanto autorevoli possano essere le proposte politiche formulategli da partiti e rispettivi leader, e per quante illusioni si siano fatte gli elettori negli anni della cosiddetta seconda Repubblica di andare alle urne per scegliere più o meno direttamente anche il capo del governo o affini, e non solo i deputati e i senatori. E’ stata una illusione generata dall’adozione, nel 1993, di un sistema elettorale prevalentemente maggioritario, sull’onda di un referendum che sembrò lo spartiacque fra il vecchio e il nuovo, il brutto e il bello, lo sporco e il pulito.

Di quella illusione è rimasto ben poco lungo nella nuova legge elettorale, con la quale si andrà alle urne la prossima volta, anche se sulle schede i partiti hanno conservato il diritto, inutilmente contestato dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di mettere nel simbolo anche il nome del loro capo.

Ma prima ancora della nuova legge elettorale e della lunga serie di presidenti del Consiglio succedutisi nella storia della seconda Repubblica senza essersi per niente candidati a quel posto nelle elezioni – da Lamberto Dini a Massimo D’Alema, da Giuliano Amato al già ricordato Mario Monti, da Enrico Letta a Matteo Renzi e a Paolo Gentiloni, nell’ordine preciso in cui sono entrati a Palazzo Chigi – ha giocato contro l’illusione dell’elezione sostanzialmente diretta del capo del governo o affine l’indifferenza dei cittadini. Che si sono rivelati tanto poco contenti o convinti di questa loro prerogativa da disertare sempre di più le urne.

Di fronte alle dimensioni, ormai, del fenomeno dell’assenteismo e alle dimostrazioni date dal primo partito del Paese, quale numericamente è diventato il MoVimento 5 Stelle, di volere e sapere selezionare digitalmente la sua classe dirigente, non ci sono da spargere lacrime sulla fine dell’illusione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio. Ma non è neppure il caso di compiacersi che ad un altro partito o leader sia venuta l’idea di mandare a Palazzo Chigi o dintorni un generale, forse pensando che solo ad un militare di altissimo rango possa riuscire l’impresa di tenere unita una coalizione molto particolare, dove il segretario della Lega ha reclamato un contratto con gli alleati da firmare davanti al notaio. Ed è stato proprio lui che, ispirando in una una gustosa vignetta di Giannelli per il Corriere della Sera il riferimento all’ultima “barzelletta” sui Carabinieri, ha reagito infastidito e incredulo all’idea di Berlusconi, pur diversamente dal collega di partito, e governatore della Lombardia, Roberto Maroni. Il quale si è ricordato di avere partecipato come ministro dell’Interno nel 2009 alla nomina di quell’alto ufficiale – Leonardo Gallitelli – a comandante generale dell’Arma dei Carabinieri.

Potrò sbagliare ma sospetto che, com’è già accaduto con Sergio Marchionne, pure lui indicato da Berlusconi per la guida del governo, anche il generale Gallitelli abbia poco gradito questa sua esposizione, peraltro seguita a quella fastidiosamente smentita di possibile candidato del centrodestra a presidente della regione Lazio, in concorrenza imbarazzata – nella stessa area – col sindaco della terremotata Amatrice Sergio Pirozzi.

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Tutti pazzi per il generale Leonardo Gallitelli?

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