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Oggi pomeriggio Roberto Fico, incaricato dal Presidente della Repubblica di compiere il suo mandato esplorativo, incontrerà Pd e M5S. Si tratta del secondo esperimento che il Quirinale intraprende per sondare indirettamente la possibilità di una maggioranza parlamentare atta a formare un governo.

Di fatto questa opzione è emersa come necessaria dopo che il M5S ha posto un veto su Forza Italia e su Fratelli d’Italia, e dopo che Matteo Salvini non ha accettato di spaccare la coalizione che ha vinto le elezioni.

La richiesta che Luigi Di Maio ha rivolto al leader della Lega non soltanto era irricevibile, e lo resta, ma ha costituito e continua a costituire una pretesa piuttosto singolare e contraddittoria: come si fa, infatti, ha pretendere di guidare il governo che nascerà, in nome del 32 % di consensi, e poi chiedere ad una coalizione che ha ricevuto unitariamente il 37% di spaccarsi per farlo esistere?

È chiaro che questa linea politica si sta trasformando in un boomerang sulla persona di Di Maio, una serie di effetti a catena che ne sta screditando completamente ogni tipo di affidabilità.

Certamente l’ipotesi al vaglio di Fico costituisce un rimedio, un’ultima strada tuttavia molto pericolosa per la tenuta democratica del Paese. Non soltanto, infatti, il Pd è il partito perdente alle elezioni del 4 marzo, ma la sinistra è uscita sconfitta pesantemente in Molise e quasi certamente non si affermerà positivamente neanche in Friuli domenica prossima.

Dunque, un’eventuale alleanza M5S-Pd dovrebbe rinunciare oltre ad avere Di Maio premier, indicato in campagna elettorale dai grillini nella scheda, ma sarebbe costretta soprattutto a portare al governo almeno una parte del partito che ha perso indiscutibilmente le elezioni.

A ciò si aggiunge un’aggravante. Anche l’eventualità di un ritorno all’ipotesi Lega-5Stelle costituirebbe un gioco di palazzo e un’alchimia incompatibile con il mandato elettorale, ossia con il modo in cui sono stati eletti moltissimi deputati e senatori del Centrodestra con la quota maggioritaria, in una campagna elettorale incentrata sull’unità di coalizione.

L’operazione di Di Maio getta, insomma, un’ombra sulla reale essenza del M5S, una compagine strana, ancora pochissimo chiara nei suoi referenti politici effettivi e su quali interessi rappresenti realmente.

Anche perché il Movimento non è per nulla un partito di centro, in quanto tale neutrale appunto rispetto alla destra e alla sinistra, ma coagula in sé una squadra che si fa portatrice di un massimalismo moralistico settario difficilmente compatibile con una democrazia complessa, pluralista, liberale e divisa al suo interno com’è, nel bene e nel male, la nostra.

L’unica vera garanzia, bisogna ammettere, per la tenuta del sistema è data proprio dall’unità del centrodestra e dalla sobrietà del capo dello Stato. Fin quando, infatti, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia rimarranno uniti, almeno un terzo degli elettori vedranno garantita la propria sovranità, con Sergio Mattarella che vigilerà che operazioni artificiose non allontanino, ancora una volta, Palazzo Chigi dalla gente comune e dagli interessi diretti della nazione espressi di continuo dall’elettorato.

A questo punto se un accordo non dovesse esserci per una flebile maggioranza di opposizione, come sarebbe quella tra 5 Stelle e Pd, sarebbe molto meglio che un esecutivo di tregua ci portasse ragionevolmente alle urne. Questa del 2018, in fin dei conti, è l’ultima chiamata che il popolo italiano fa alla Repubblica. O si difende la legittimità democratica della volontà popolare, oppure si rischia di seguire Rousseau nel plebiscito collettivo monopartitico grillino, finendo rapidamente nell’antidemocrazia.

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