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“America First non vuol dire America alone”, così Trump a Davos prova a rassicurare l’elite socio/economica internazionale nel suo discorso al Forum economico globale. A detta di tutti, a Davos Trump giocava fuori casa. Un Presidente che vede nel commercio internazionale un gioco a somma zero irrompe nel sacro tempio della globalizzazione, dove la libera circolazione di uomini, merci e capitali assurge a dogma economico e sociale. “Che America First non significhi America Alone è ovvio – ha commentato in un’intervista a Formiche.net Germano Dottori, docente di Studi strategici presso l’Università Luiss di Roma – . Gli Usa sono in ogni caso al centro del mondo e Trump lo ha voluto ricordare alla platea di Davos. Nessuno – continua il professore – deve illudersi che l’America non continui ad avere amici ed alleati. Tuttavia, c’è un risvolto importante: Trump ha ricordato che gli Usa penseranno sempre prima ai propri interessi nazionali e non si preoccuperanno più di risolvere tutti i problemi del pianeta”.

Nei giorni precedenti, i leader politici mondiali avevano istruito la platea sui rischi di un ritorno al protezionismo, impegnandosi in più o meno credibili apologie dell’integrazione politica ed economica. Mercoledì, il premier indiano Modi aveva messo in guardia gli astanti contro la tentazione di “chiudersi in se stessi”, definita “una minaccia non meno preoccupante di cambiamento climatico e terrorismo”. Il giorno dopo, Angela Merkel, fresca di accordo per la grande coalizione, ricordava come l’isolazionismo abbia coinciso con le pagine più buie della storia europea. “Dobbiamo cercare risposte multilaterali, l’isolamento non aiuta”, aveva tuonato la cancelliera. Infine era venuto il turno di Trudeau, alfiere di lungo corso della globalizzazione, che aveva scelto proprio Davos per annunciare la conclusione del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership” ( CPTPP), tra il Canada ed altri 11 paesi ma senza gli USA, che proprio sotto Trump si erano ritirati dall’accordo.

Forte di un’economia, quella americana, che ha ripreso a correre ed è ormai vicina alla piena occupazione, Trump nel discorso ha tenuto a rivendicare i propri successi in ambito economico: “Abbiamo assistito alla resurrezione di un’America forte e prospera, non c’è stato momento migliore per investire, costruire e crescere negli Stati Uniti. Siamo di nuovo competitivi”, ha esclamato l’inquilino della Casa Bianca, rivendicando come le sue riforme, il taglio “massiccio delle tasse, l’eliminazione di inutili regolamentazione e burocrazia”, abbiano creato “il momento migliore per fare affari in America”.

Trump ha anche parlato di futuri accordi commerciali su base bilaterale, purché il commercio sia “giusto e reciproco”. Per Dottori, “sul piano della politica commerciale, la predilezione di Trump per gli accordi bilaterali era da tempo nota. Il presidente ritiene correttamente che in un negoziato a due, gli Usa siano in grado di far pesare maggiormente la propria superiore potenza”.

Il Presidente americano ha anche paventato la possibilità di “tornare a valutare” il Trans-Pacific Partnership – l’accordo di libero scambio tra Usa e 11 nazioni che si affacciano sul Pacifico a cui aveva puntato Barack Obama- qualora gli USA ottenessero “un accordo decisamente migliore”. Come spiega il professore della Luiss, “l’apertura ad un Tpp rivisitato è interessante. Penso che Trump sia disponibile ad un nuovo accordo che riduca la dipendenza dei partner del Pacifico dalla Cina. Difficile però che riesca nell’intento”.

Tuttavia, sarebbe ingenuo pensare che Trump possa rivedere in toto la sua politica commerciale aggressiva, perché, segnala Dottori, “Trump ha chiarito che l’America reagirà a qualsiasi intervento pubblico estero ne danneggi la competitività, confermando ai propri elettori la solidità del suo impegno a rilanciare le manifatture americane”. Nella logica trumpiana infatti, ci ricorda il professore, “i deficit commerciali non sono facilmente tollerabili, perché sono sovvenzioni a Paesi esteri della cui soggezione agli Usa Trump è meno preoccupato dei suoi predecessori.”

Se si sposta poi la partita dal piano strettamente economico a quello geopolitico, è chiaro che “il contenimento geopolitico e commerciale della Cina è una priorità di Trump, come lo è anche il ridimensionamento della Germania. Di Pechino si occuperanno verosimilmente anche giapponesi e russi, che dei cinesi diffidano”.

In questo contesto globale in continua evoluzione, “l’Italia sarà forse chiamata a delle scelte difficili”. Tuttavia, spiega il professore, “l’attuale governo è appiattito sull’Europa, sulla Cina e Paesi di cui Trump diffida, come il Qatar”. Tuttavia continua Dottori “in questa campagna elettorale l’argomento è accuratamente evitato. Invece, se ne dovrebbe parlare: quanto ci conviene ignorare Trump?”.
Per l’esperto il discorso di Davos conferma ancora una volta che “l’elezione di Trump implica la rinuncia, non si sa ancora se provvisoria o definitiva, degli Stati Uniti all’americanizzazione del mondo, un processo di cui la globalizzazione è stata un potente vettore ideologico”. Ciò perché il Presidente americano “è un sovranista che ritiene eccessivi ed ingiustificati gli oneri che l’America dovrebbe sostenere per cambiare il mondo”.

Tale approccio non è però senza precedenti nella storia americana. Piuttosto, “è una visione che ben prima di Trump aveva proposto negli anni novanta Pat Buchanan, un repubblicano proveniente dai ranghi dell’amministrazione Nixon che tentò di conquistare la Casa Bianca. Benché appaiano talvolta poco ortodosse, “molte idee di Trump non sono affatto ereticali, traendo linfa da una profonda tradizione americana”. La dottrina Trump, potrebbe, secondo Dottori, “preparare l’avvento di forme di commercio manovrato che un tempo invocarono anche economisti come Krugman, lontanissimi da Trump”.

Per quanto concerne l’invito agli alleati ad aumentare le spese per la difesa, “abbiamo aumentato spese per la difesa, gli altri Paesi facciano lo stesso”, il professor Dottori è convinto che sia “indubbio che un minore impegno militare americano all’estero e specialmente nel Mediterraneo dovrebbe spingerci a scelte di più alto livello, sotto il profilo del potenziamento delle nostre capacità nazionali di operare scelte strategiche e concretizzarle anche operativamente”. All’Italia, spiega Dottori, “non servono solo armi, ma riforme istituzionali adeguate. Sfortunatamente – conclude amaramente il Professore – pare ancora forte da noi l’illusione che a toglierci le castagne dal fuoco possano essere sempre i francesi o i tedeschi.

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