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Il 4 novembre tre eventi simultanei hanno segnato un’escalation nello scontro tra Arabia Saudita ed Iran. Un missile scagliato dallo Yemen è stato intercettato in volo prima che colpisse l’aeroporto di Riad: una mossa che i sauditi hanno interpretato come “una dichiarazione di guerra” da parte di Teheran e della sua emanazione libanese di Hezbollah, che in Yemen sostengono i ribelli Houthi contro i quali i sauditi sono in guerra. Contemporaneamente, mentre era in visita in Arabia Saudita, il premier libanese Saad Hariri annunciava in diretta televisiva le sue dimissioni, che molti a Beirut e in Medio Oriente hanno letto come una manovra saudita volta a colpire Hezbollah, partner di governo di Hariri e longa manus di Teheran. Infine, nello stesso torno di tempo, il principe ereditario Mohammad bin Salman poneva agli arresti numerosi reali, ministri e imprenditori, una purga che secondo molti prelude ad un accentramento del potere saudita nelle mani di bin Salman finalizzata, tra le altre cose, a meglio dirigere l’offensiva anti-Teheran.

È facile immaginare che questa concatenazione di avvenimenti avrà degli effetti nel comportamento delle potenze sunnite alleate di Riad, in particolare degli altri tre componenti del quartetto anti-terrore: Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrein. Tre potenze che si sono compattate lo scorso 5 giugno quando si è trattato di isolare il Qatar, Paese che ai loro occhi andava punito per la sua politica estera troppo accondiscendente nei confronti dell’Iran e per una serie di altri motivi tra cui il generoso sostegno ai movimenti islamisti sunniti, a partire dai Fratelli Musulmani. L’unità di intenti del quartetto, tuttavia, potrebbe essere messa alla prova dalle nuove mosse di Riad, e non è detto che tenga.

L’Egitto appare sotto diversi punti di vista l’anello debole del quartetto. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha aderito all’iniziativa saudita contro il Qatar esclusivamente per colpire le liasons dangereuses di Doha con i Fratelli Musulmani, che al-Sisi ha estromesso dal potere nel 2013 con un colpo di Stato che ha portato dietro le sbarre il presidente Mohammed Morsi eletto l’anno prima. Ma il Cairo non condivide affatto la posizione e l’analisi di Riad su Hezbollah. I sauditi temono più di ogni altra cosa l’influenza di Teheran nel Levante, rafforzatasi negli ultimi mesi grazie alle vittorie del regime di Damasco e degli alleati iraniani e di Hezbollah – con il sostegno decisivo della Russia – contro i ribelli appoggiati dalle potenze sunnite e contro l’ormai morituro Stato islamico. Completamente diversa è invece la lettura che di questi sviluppi fanno al Cairo. Per al-Sisi, la sconfitta in Siria del composito fronte sunnita per mano dell’asse sciita è un avvenimento positivo, perché indebolisce una minaccia che per l’Egitto, impegnato a debellare l’insurrezione jihadista nel Sinai e a cancellare la presenza dei Fratelli Musulmani dal quadro politico e sociale del paese, è semplicemente esiziale.

Per al-Sisi, insomma, Hezbollah – nemesi dei sauditi – è una preziosa risorsa, utile per mettere all’angolo e possibilmente sgominare forze che ritiene pericolose. Se c’è un nemico da colpire, per l’Egitto si tratta semmai della Turchia, che in Siria ha finanziato e sostenuto militarmente la ribellione sunnita e, secondo un sospetto mai fugato, persino lo Stato islamico. Al-Sisi ha più di un motivo per vedere come fumo negli occhi il presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Il partito di Erdogan, l’AKP, appartiene infatti alla filiera dei Fratelli Musulmani, gli stessi che al-Sisi è stato costretto a scacciare nel 2013 e di cui teme più di ogni altra cosa il ritorno in auge. Solo per questo, e non certo per la minaccia iraniana, al-Sisi ha aderito al boicottaggio del Qatar. Quella dei Fratelli Musulmani è, per al-Sisi, un’ossessione, giustificata dal secolare tentativo del movimento di conquistare il potere.

È per questo che al-Sisi l’8 novembre ha negato il proprio sostegno alla manovra di accerchiamento di Hezbollah auspicata da bin Salman. Lo ha fatto con garbo, ribadendo che “la sicurezza nazionale dei paesi del Golfo corrisponde alla sicurezza nazionale dell’Egitto”. Ma contrastare Hezbollah non corrisponde affatto all’interesse nazionale egiziano, che potrebbe semmai essere compromesso da un indebolimento di un paese, il Libano, la cui relativa calma è propedeutica agli sforzi degli attori regionali di debellare la minaccia jihadista, spauracchio di al-Sisi.

Quanto alla Siria, dal 2013 il Cairo ha assunto posizioni alquanto simpatetiche nei confronti del presidente Bashar al-Assad. Agli occhi di al-Sisi, il rais di Damasco rappresenta un baluardo contro l’estremismo islamico nel Levante. Per il presidente egiziano, l’obiettivo che Assad si è prefisso nelle guerra civile, rimanere in sella e preservare l’unità nazionale del paese, corrisponde all’interesse nazionale dell’Egitto. Da qui l’opposizione di al-Sisi ad ogni azione contro Hezbollah e l’Iran, le cui operazioni militari in Siria hanno contribuito non poco alla vittoria di Assad contro il variegato fronte dei ribelli sunniti e jihadisti. Sono questi, nell’ottica di al-Sisi, i veri nemici, da cui la posizione ostile nei confronti della Turchia, che ai suoi occhi appare né più né meno che come uno stato che sponsorizza il terrorismo.

Da questo punto di vista, l’Egitto è in sintonia con gli Emirati Arabi Uniti, che condividono la valutazione negativa di al-Sisi delle simpatie islamiste di Erdogan. Ma Abu Dhabi, così come Riad e Manama, non metterebbero mai a repentaglio i legami con Ankara. Arabia Saudita ed Emirati hanno investito molto in Turchia, e viceversa. Ci sono significativi scambi commerciali tra questi paesi. E le tre potenze del Golfo acquistano un quarto delle esportazioni militari di Ankara. Riad ed Abu Dhabi non hanno intenzione di perdere una fonte di preziosi armamenti in un periodo in cui l’Occidente, preoccupato per la crisi umanitaria dello Yemen, potrebbe prendere di mira la vendita di armamenti al blocco sunnita.

Il quartetto sembra insomma avere una coesione per lo meno fragile. Difficile, se non impossibile, immaginare una convergenza tra le rispettive politiche estere. Se per Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, l’Iran è la minaccia numero uno alla stabilità della regione, per l’Egitto la minaccia numero uno è rappresentata dalla Turchia. Ma agli occhi delle tre potenze del Golfo, Ankara è un naturale partner sunnita oltre che una potenza economica imprescindibile. Mentre per l’Egitto la Turchia è uno stato compromesso con il peggior islamismo e con il terrorismo sunnita, e pertanto andrebbe boicottato non meno di quanto il quartetto sta facendo con Doha.

Certo, le potenze del Golfo potrebbero ricattare al-Sisi facendo leva sugli enormi aiuti economici destinati al Cairo da quando il primo ha scalato il potere. Al Cairo sorgerebbero non pochi dilemmi qualora Riad decidesse di fare sul serio in Libano. Bisogna tenere conto tuttavia che, nonostante gli aiuti, al-Sisi non ha mai accettato la proposta di Riad e Abu Dhabi di svolgere un ruolo decisivo nella guerra in Yemen, altro fronte caldo dello scontro sunnita-sciita in Medio Oriente.

Non è detto, pertanto, che l’intenzione saudita di ostacolare il tentativo iraniano di controllare il Levante trovi il sostegno dell’Egitto. Le partite, in Medio Oriente, non sono mai scontate.

Come e perché l'Egitto si smarca un po' dalla totale sintonia con l'Arabia Saudita

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