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Nel 1948 in Italia veniva tradotto un romanzo capolavoro della letteratura americana Aspetta primavera, Bandini (1938), di John Fante. Nel 1948 Federico Fellini e Tullio Pinelli scrivono un trattamento, sessanta pagine, rimasto in un cassetto per mezzo secolo, diventato ora (fedelmente), Napoli-New York (2024) di Gabriele Salvatores.

È la storia di due bambini, Carmine (11 anni) e Celestina (8 anni) – sono Antonio Guerra e Dea Lanzaro (diretti impeccabilmente) -, pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, a Napoli, finiti casualmente, illegalmente, su una nave-bastimento diretta negli States. Chissà se John Fante, mi chiedevo mentre vedevo il delicato film di Salvatores, avesse deciso di scrivere, per un momento abbandonando la sua vena malinconico-drammatica, un racconto-fiaba alla Fellini-Pinelli, egli, di origine molisane, che conobbe bene l’essere migrante dei genitori, e il suo vivere aggrappato agli orli scivolosi del sogno americano negli anni Trenta, non in una grande città ma nella sprofondata provincia americana (nel suo caso, in Colorado)? Forse non l’avrebbe mai scritta una storia con l’happy end, come il film di Salvatores, ma avrebbe amato Napoli-New York perché, come scrive Charlie Chaplin in epigrafe a The Kid (1921), «è un film con il sorriso e una lacrima».

Napoli-New York è un perfetto melodramma, se si vuole alla maniera hollywoodiana, ma con un linguaggio universale. Perché Salvatores sa raccontare il sogno di ogni bambino che voglia una vita diversa, che desideri emigrare (sia in Europa o in America). Egli realizza un film pienamente etico-giuridico: il diritto di sognare prima e, con un pizzico di fortuna, di realizzare poi una vita altra. Con l’aiuto dei “buoni”: un cuoco afro-americano (Omar Benson Miller: notevole la mimica umoristica) che fa da “zio” sulla nave e un comandante burbero, poi rivelatosi un buon padre (Pierfrancesco Favino, mai sopra le righe, per un personaggio apparentemente semplice).

Salvatores accetta la sfida di un tema classico del cinema: quello del sogno di una vita felice. Il sogno per eccellenza della settima arte, raccontato migliaia di volte sul telone. Soprattutto scritta nel Dna della commedia realistica come di quella fantastica: da Frank Capra (Arriva John Doe, 1941), passando per Vittorio De Sica (Ladri di biciclette, 1948, Miracolo a Milano, 1951), a Federico Fellini (Roma, 1972). E Salvatores, con intuito, seguendo lo scenario di Fellini-Pinelli, fonde insieme queste due anime della narrazione, il realistico con un pizzico di fantastico, guardando «anche alla letteratura per ragazzi» (come nota Paola Casella su MYmovies).

Napoli-New York viaggia sulle note della poesia: l’iper-realismo digitale è filologicamente corretto; apprezzabili le scelte estetiche omaggianti il cinema d’avanguardia: vedi i tagli, solo su gambe e piedi, dei passi affrettati di centinaia di persone su marciapiedi di New York (“montaggio stretto” di Julien Panzarasa); spiazzante la composizione documentaristica: i poveri migranti accatastati sul fondo della stiva (il puzzo dell’indigenza ci arriva in sala per sinestesia); calibrata l’ironia della denuncia sociale: la pasticceria chic degli anni Cinquanta con i figli dei borghesi che guardano, con espressione di schifo, i due scugnizzi napoletani, mentre cercano di acquistare una torta (citazione da Ladri di bicilette).

Il film alterna l’inferno dei “sotterranei” della nave e del Bronx, con il paradiso all’American Dream della New York borghese. Qui mature donne ingioiellate non sanno dov’è l’Italia; le vie di lussuosi negozi recano sui muri giganti manifesti pubblicitari di bambini biondi e felici; nelle auto e nei taxi l’America-bene corre, senza fiato, colorata e felice dentro un inarrestabile sogno.

Ci sono delle sequenze di intensa poesia nella loro drammaticità, soprattutto nella prima parte, quella della nave. Carmine sale la scaletta che conduce sul ponte della nave. Qui, i passeggeri borghesi, in immacolati abiti bianchi o color panna, le donne con i loro immancabili cappellini estivi, prendono il sole ai tavoli del ristorante all’aperto o sulle sdraio: gran caldo. Carmine porta loro dell’acqua da bere nelle fiaschette di vetro. La camera lo segue in carrello. Poi ridiscende la scaletta: ora è la volta dei migranti gettati sull’impiantito del piano inferiore della nave, nei piccoli spazi e nelle strettoie di passaggio lungo la nave, una umanità umiliata, persone disidratate, senza cibo, senza doccia. Il piano-sequenza è magistrale: tutto ad altezza di povero e di bambino. In questa scena, fondamentale, riposa il messaggio d’amore del film: dar da bere a tutti gli assetati.

Come non dimenticare, poi, un altro acuto del film: lo sbarco dei migranti. Eccoli in fila sul piano basso della nave, con le loro valigie di cartone rattoppate, legate con lo spago alla meno peggio, scrigni che racchiudono avanzi di una vita grama ma dignitosa, con un pezzetto di Italia; avanzano lentamente, dentro brandelli di abiti; scapigliati, non rasati; volti stanchi e impauriti dal controllo. Un involontario (?) spettacolo per i curiosi borghesi affacciati in alto, sul ponte: questi poveri ricordano i deportati verso i campi di concentramento. Qui sono i deportati a causa della povertà, della diversità, della difficile inclusione. (Salvatores li segue in carrello e plongée: ti fa venire il dubbio che qualcuno sia un tuo parente o un amico dimenticato).

Nel ritrarre la contrapposizione tra il piano alto e quello basso (inclusa la stiva di cui prima, dove i migranti vivono per settimane in pochi centimetri), Salvatores omaggia un mondo diviso in strati, rimandandoci, cinematograficamente, a Metropolis (1927) di Fritz Lang (forse l’involontaria citazione era nella già idea di Fellini e Pinelli).

Una fotografia vivida (Diego Indraccolo) e una scenografia tridimensionale studiata tra Napoli e Trieste (Rita Rabassini), corrette al digitale evitando la plastificazione, e la accurata scelta musicale del periodo (Federico De Robertis: da far invidia a Woody Allen), ricreano nelle strade e nei negozi dei quartieri ricchi un’ironica atmosfera da bomboniera poi subito smorzata, in contraltare, da sequenze fortemente realistiche (alla Cartier-Bresson: per es. Celestina finita nel povero Bronx: un bambino di colore le darà il suo panino). Qui riposa la maestria di Salvatores: dirigere una piccola-grande sinfonia di studiati contrasti in moderato crescendo.

Con Napoli-New York, Salvatores riesce a far sognare lo spettatore, bambino e adulto. Chiude con Carmine fortemente deciso ad aspettare che Celestina cresca… Un finale così lo avrebbe firmato non solo Chaplin, anche Frank Capra.

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