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Prima o dopo doveva accadere. Ed è infine accaduto. Parlo dell’esplosione, per quanto metaforica, del Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Che ha chiuso a suo modo, precedendo ancora una volta tutti i concorrenti, il lungo e controverso caso giudiziario e politico della Consip e dei suoi appalti per le forniture alla pubblica amministrazione sentenziando inappellabilmente la condanna di Renzi per falso.

“Tutto quello che dice Renzi è falso”, ha appunto titolato in rosso il giornale di Travaglio su tutta la prima pagina. Ma stiamo parlando di Renzi figlio, Matteo, neppure indagato: non di Tiziano, il padre, indagato invece per il cosiddetto traffico d’influenze sugli allora amministratori della Consip ed altri dopo che un ufficiale di polizia giudiziaria, nel frattempo promosso da capitano a maggiore dell’Arma dei Carabinieri per invalicabili ragioni di anzianità di servizio, ha manipolato – secondo l’accusa della Procura di Roma – un’intercettazione telefonica.

Gli altri quotidiani, fermi alle notizie appunto dell’accusa della Procura romana, dove peraltro è indagato proprio per falso il famosissimo e quasi mitico sostituto procuratore Henry John Voodcock, in servizio a Napoli, sono stati dal canto loro condannati alla gogna mediatica da Travaglio – con tanto di editoriale – per la loro insipienza. Più semplicemente e banalmente essi raccoglierebbero le proteste di Renzi e amici contro gli abusi degli inquirenti, emersi peraltro dalle stesse indagini, solo per nascondere la propria asineria, diciamo così, cioè per avere rimediato una quantità ormai industriale di “buchi” procurati dall’invincibile concorrenza del Fatto Quotidiano. I cui inviati, redattori e telefonisti sanno arrivare nelle procure, nelle caserme e dintorni prima degli altri. E meno male che Travaglio si è fermato all’asineria, non avventurandosi a sostenere che quei buchi i suoi concorrenti li hanno voluti prendere apposta, solo per coprire Renzi e non segargli quel che gli rimane delle gambe sulla strada delle elezioni, prima in Sicilia e poi in tutta Italia.

Piuttosto, in un empito di generosità e colleganza, Travaglio non si dà pace di quanto sia caduto in basso il giornalismo rispetto ad un passato lontano e recente, quando tutti i quotidiani erano pieni di scoop giudiziari contro il potente di turno. In particolare, Travaglio ha citato – e rinfacciato soprattutto a Repubblica – i casi di Bettino Craxi e di Silvio Berlusconi. Cui aggiungerei quello di Clemente Mastella, costretto nel 2008 a dimettersi da ministro della Giustizia, e a trascinarsi appresso il secondo governo di Romano Prodi e l’intera legislatura, per un processo sulle assunzioni sanitarie in Campania da cui è stato appena assolto con la moglie e altri imputati, ancora in primo grado, dopo più di nove anni dall’incriminazione.

Ma di Mastella e del suo caso Travaglio si è già affrettato a spiegare alla concorrenza insorta contro i tempi troppo lunghi dei nostri tribunali che ancora una volta essa è incorsa in errori di informazione, cioè in asineria. L’assoluzione dell’ex ministro della Giustizia non solo non è definitiva, impugnabile dall’accusa, che aveva chiesto una condanna superiore ai due anni, tale quindi da farlo decadere subito da sindaco di Benevento, qual è oggi, ma neppure importante perché è ancora in piedi un altro e più grave processo contro di lui per i fatti di più di dieci anni fa. Di questo secondo procedimento Travaglio naturalmente, a dispetto di noi altri, tutti ciucci, sa abbastanza per ritenere e prevedere una condanna. O una prescrizione, utile a salvare la faccia non si sa se più dei giudici o dell’imputato.

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