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Invitato dal professor Tito Boeri, presidente dell’Inps, ho ascoltato, il 4 luglio scorso, nella sala della Regina a Montecitorio, la sua relazione annuale rimanendo letteralmente “basito” da alcune sue affermazioni.

Boeri ha esordito, nella sua relazione (più politica che tecnica), chiedendo al Parlamento di cambiare la denominazione dell’Inps in “Istituto nazionale per la protezione sociale” che non comporterebbe neanche la modifica dell’acronimo, perché su 440 prestazioni erogate solo 150 sono di natura pensionistica.

In buona sostanza il bocconiano tenta la scalata alla gestione dell’intero Welfare, con buona pace del ministro responsabile. Interviene, quindi, sul problema immigrati che, a suo parere, rappresentano una grande risorsa per il suo istituto che rischierebbe la bancarotta se si dovessero chiudere le frontiere.

Se i flussi in entrata dovessero azzerarsi avremmo – sempre secondo Boeri – per i prossimi 22 anni 73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate agli immigrati con un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps.

Sono dei veri e propri “numeri al lotto” anche perché questa eventuale perdita di 1,7 miliardi all’anno (da qui al 2040) è ampiamente compensata dagli oltre 4 miliardi annui che spendiamo solo per l’accoglienza degli extracomunitari.

Sulla rete Sprar (Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) leggiamo che fra gli immigrati il 22% presenta “caratteristiche di vulnerabilità”, l’8,3% comprende persone disabili con disagio mentale o con necessità di assistenza domiciliare e sanitaria specialistica prolungata. Inoltre il 12% degli immigrati non ha alcun titolo di studio, il 62% ha un titolo corrispondente alle nostre elementari e medie inferiori.

Certamente come affermato da alcuni illuminati progressisti al caviale e champagne li possiamo mettere a raccogliere pomodori e olive, ma se vogliamo utilizzarli veramente dovremmo formarli (e la formazione costa).

Una ricerca dell’Ocse (Thomas Liebig e Jeffrey Mo 2013/14) ha dimostrato che i migranti non hanno portato né sottratto ricchezza. Le ondate migratorie degli ultimi 50 anni nei Paesi sviluppati (Usa, Canada e Australia compresi) hanno avuto un effetto vicino allo zero, oscillando tra un – 0,5% e un + 0,5% del Pil. Quindi, nella migliore delle ipotesi, non sono un peso ma neppure una panacea.

Affermazione questa non applicabile all’Italia dove i migranti rappresentano un notevole peso economico che, fra l’altro, l’Europa non ha intenzione di condividere. Secondo la Fondazione Leone Moressa, all’inizio del 2016, degli oltre 5 milioni di immigrati regolari (cui aggiungere oltre 500mila clandestini) 2,3 milioni erano occupati e hanno contribuito per oltre 123 miliardi al valore aggiunto del sistema Italia versando imposte per 6 miliardi e 10,9 miliardi di contributi per un totale di circa 17 miliardi. Ottimo! Ma i restanti 2,7 milioni? Sono persone anziane a completo carico dei servizi sociali e del Ssn, oppure bambini (circa 900mila), oppure persone che il lavoro lo hanno perso o non lo hanno mai avuto, ma che in caso di necessità hanno giustamente diritto a ricevere le necessarie cure, che sono ai primi posti nelle graduatorie per l’accesso agli asili nido, alle social card e quant’altro.

I costi per l’accoglienza sono in continua crescita. Nel Def si afferma: le operazioni di soccorso, assistenza sanitaria, alloggio e istruzione per i minori non accompagnati sono, al netto dei contributi Ue, pari a 3,6 miliardi nel 2016 e saranno 4,6 miliardi nel 2017, alla luce dei continui aumenti di sbarchi. Bisogna, poi, aggiungere 4 miliardi per assistenza sanitaria e distribuzione farmaci, 2 miliardi per i costi relativi ai detenuti stranieri (sono il 35% del totale).

Bisogna, inoltre, rilevare che, secondo Bankitalia, una parte dei guadagni degli immigrati esce dal circolo della ricchezza nazionale finendo nei Paesi d’origine (nel 2015 circa 6 miliardi). Da considerare, infine, i costi del rimpatrio dei migranti non aventi diritto allo status di rifugiati. L’Italia, basandosi sui dati del 2017 spenderebbe altri 2 miliardi. Negli ultimi 2 anni ha speso 100 milioni per rimpatriare 2.899 persone.

Professor Boeri come si può affermare che i migranti tengono in piedi il nostro sistema di protezione sociale?

È assolutamente inopportuno sollevare questo problema in un momento in cui l’Europa ha chiaramente manifestato la volontà di scaricare sulle spalle degli italiani tali oneri. Si tratta di una chiara esondazione (per la verità più volte ripetuta) del bocconiano dall’alveo del suo ruolo squisitamente tecnico in aperto contrasto politico all’azione del governo.

È lecito, però, chiedersi perché Boeri lanci, almeno annualmente, queste bombette puzzolenti ergendosi a fustigatore della “politica incompetente”. Non sarà determinata da qualche recondita aspirazione politica? Un ministero prestigioso (dell’Economia e Finanze) o addirittura Palazzo Chigi? Dio ce ne scansi e liberi! Di bocconiani ne abbiamo già avuto uno e basta e avanza visto l’effetto della sua legge “Salva Italia” che personalmente definirei “Ammazza Italia”.

Fra gli altri temi affrontati il professore, in aperta polemica con i sindacati che da decenni chiedono la netta separazione della previdenza dall’assistenza, ne ha sostenuto l’impossibilità se non prevedendo un ricalcolo delle pensioni in essere con il metodo contribuivo. Ma vuole capire, una volta per tutte, che tale ricalcolo è materialmente inattuabile perché l’Inps non dispone dei dati retrospettivi sui contributi versati 40-50 anni addietro?

È stato smentito clamorosamente anche da un suo direttore che era stato chiamato in Commissione lavoro della Camera il 10 marzo dello scorso anno a commentare tecnicamente le proposte di legge che vorrebbero ricalcolare con il metodo contributivo le pensioni superiori a 5mila euro lordi mensili, asserendone l’impossibilità. Il direttore ha, inoltre, rilevato che le pensioni più elevate con il ricalcolo potrebbero subire un aumento anziché una diminuzione che subirebbero, invece, le pensioni medio-basse che si vorrebbero tutelare.

Ma non tutto è negativo: si possono condividere, anche se parzialmente, le sue posizioni sul lavoro delle donne e sul lavoro dei giovani che rischiano pensioni indecorose se non si realizzerà un’urgente revisione dei meccanismi di rivalutazione, se non si realizzerà una vera previdenza integrativa che, ad oggi, nel pubblico impiego non è ancora integralmente partita, e soprattutto senza una adeguata lotta al precariato, che, secondo l’ex presidente Renzi, avrebbe dovuto risolversi con il jobs act, ma che gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione giovanile al 37%, smentiscono sonoramente. Di tutto ciò parleremo in seguito.

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