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Il muro europeo che si sta alzando attorno al nostro Paese è due volte insolente. Intanto, perché la libertà di circolazione è un principio-cardine fra le nazioni dell’Unione europea, e qui stiamo tornando alle dogane dell’Ottocento. Oltre che a un’intollerabile militarizzazione della frontiera, mentre semmai in ballo ci sono solo persone disarmate, senza soldi e senza niente: i profughi. Bene ha fatto Roma a convocare l’ambasciatore austriaco per un gesto senza precedenti in epoca democratica e di pace fra nazioni che hanno appena festeggiato a Merano i venticinque anni dalla fine della controversia alto-atesina, unico e strumentale litigio nella storia recente fra i due Paesi. E poi il muro che stanno costruendo per terra e per mare, significa che gli europei si lavano le mani, moderni Pilati, di fronte all’esodo.

Certo, ha ragione il presidente dell’Inps, Boeri, quando ricorda che, senza lavoratori stranieri, in ventidue anni lo Stato ci rimetterebbe 38 miliardi. Ma, a parte che lui si riferisce a immigrati regolari e integrati che contribuiscono al benessere di tutti, quello che accadrà nel 2039 non c’entra con gli sbarchi di oggi sulle coste della Penisola. Prioritaria è la drammatica odissea di chi sogna l’Europa, ma trova solo il salvataggio italiano sulla sua rotta. Salvare è un dovere, e lo facciamo da tempo. L’accoglienza è una scelta politica, e deve essere condivisa e distribuita fra i ventisette Paesi dell’Unione. Ma gli altri ci elogiano a parole e ci sbattono la porta, anzi, il muro in faccia. Per loro l’Europa non comincia, ma finisce a Lampedusa. Il governo reagisca: è già tardi.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

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