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Se questa mattina fossi sbarcato sulla spiaggia di Vierville-sur-Mer, oppure a Port-en-Bessin, a quest’ora sarei probabilmente morto o ferito. Il D-Day, cioè il giorno che vide sbarcare in Normandia 123mila militari Alleati, in gran parte americani, britannici e canadesi, costò loro diecimila perdite, di cui quattromila morti, che salirono a 156mila per l’intera campagna. Quel 6 giugno 1944 i 50mila difensori tedeschi ne subirono quasi altrettante, ma con il vantaggio di potersi ritirare. Alle spalle degli Alleati c’era solo la Manica, le cui acque avevano due anni prima avevano inghiottito gran parte dei canadesi sbarcati a Dieppe.

Proiettare centinaia di migliaia di uomini e mezzi attraverso il mare, lanciarli su spiagge fortificate con ostacoli visibili e sommersi e protette da cannoni e mitragliatrici, consolidare teste di ponte dalle quali spingersi gradualmente verso l’interno della Francia occupata. Era questa la scommessa degli Alleati, che tornavano sul continente europeo abbandonato con ignominia nel giugno 1940. Una scommessa in gran parte obbligata, giacché il bombardamento strategico non era riuscito a piegare la Germania e i sovietici reclamavano a gran voce l’apertura di un “secondo fronte” che alleviasse la pressione a Est. Pur raggiungendo Napoli in appena due mesi, causando la caduta del fascismo e l’uscita dell’Italia dalla guerra, lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 non era bastato a soddisfare le richieste di aiuto diretto di Stalin.

Fu così che la notte del 5 giugno 1944 centinaia di navi e migliaia di aerei lasciarono la Gran Bretagna con la prua verso sud. Stava iniziando Overlord, la più grande operazione anfibia mai tentata nella storia, con 7mila navi e mezzi da sbarco, comprese 1.213 militari, delle quali 79% anglo-canadesi, 16,5% USA, 4% tra olandesi, francesi, greche, norvegesi e polacche. Prima ancora che raggiungessero le spiagge, gli aerei avevano lanciato 23mila tra paracadutisti e fanteria aeroportata su alianti. Toccando terra nel buio fitto, faticarono a ritrovarsi e organizzarsi in formazioni combattenti.

La narrazione fondata sui numeri trascura o non comprende la complessità e la modernità dell’operazione. In realtà, c’era già la guerra elettronica: bombardieri sganciarono con estrema precisione tonnellate di lastrine d’alluminio per creare falsi echi radar e nascondere l’arrivo di aerei e alianti da sbarco. C’era già la guerra ibrida: la resistenza francese, avvisata con messaggi in codice, tra i quali il famoso verso di Verlaine, scatenarono azioni di sabotaggio. C’era già la tecnologia: i giganteschi porti artificiali, trasportati attraverso la Manica per ancorarli al largo della costa normanna e scaricare rifornimenti finché non fosse stato possibile conquistare un porto vero. C’era persino la disinformazione: l’esercito statunitense creò il 23° Headquarters Special Troops, i cui 1.100 uomini ingannarono i tedeschi simulando con distintivi, trasmissioni radio e carri armati gonfiabili un intero corpo d’armata pronto a sbarcare a Calais. Un approccio olistico, che non trascurò alcun aspetto per aumentare la possibilità di successo di un’operazione molto azzardata.

La storia di Overlord inizia nel gennaio 1943 a Casablanca, dove Churchill e Roosevelt creano uno specifico stato maggiore, battezzato Cossac, per preparare lo sbarco. Il piano iniziale fu approvato nell’agosto 1943 nel convegno del Quebec. La forza di sbarco fu fissata nel gennaio 1944 a tre divisioni di paracadutisti e cinque di fanteria. Attorno a questo parametro doveva girare tutto, a partire dalla disponibilità di Landing Ship Tank (le navi con la prua apribile per far scendere camion e carri armati) e Landing Craft (mezzi da sbarco) per fanteria e veicoli. Uno sforzo enorme, fedele al principio per cui i dilettanti parlano di strategia e i professionisti di logistica.

Le celebrazioni dell’80° anniversario dello sbarco hanno portato in Normandia capi di Stato e di governo, ma anche migliaia di appassionati, spesso con mezzi e uniformi d’epoca, per onorare la memoria delle migliaia di soldati che sono rimasti per sempre giovani sulle sue spiagge e nei suoi prati. Tra questi ci sono anche molti italiani, testimoni privilegiati della vicenda che segnò la nascita della grande alleanza continentale e transatlantica che nel giro di pochi anni avrebbe dato vita alla Nato. Compensano, in parte, la relativa scarsa partecipazione nazionale all’evento. Non tanto perché nel 1944 l’Italia ufficiale fosse spezzata in due, in parte con la Germania e in parte con gli Alleati, quanto perché per la nostra memoria collettiva il mese di giugno apre con le ricorrenze del referendum istituzionale del 2 e della liberazione di Roma, del 4. Eppure, ieri come oggi, la posta in gioco era la stessa: l’assetto geopolitico dell’Europa, il ritorno della democrazia, lo sviluppo delle libere istituzioni.

Chi sbarcò quella mattina non poteva saperlo, così come non poteva capirlo il tedesco che cercava di fermarlo, ma nel giro di undici mesi la Germania nazista sarebbe crollata, sconfitta per sempre. Su quelle spiagge stava nascendo il nuovo mondo nel quale saremmo cresciuti. Aveva ben ragione Cornelius Ryan quando nel 1959 chiamò la sua cronaca dello sbarco Il giorno più lungo. Quale giorno è mai durato ottant’anni?

Sbarco in Normandia. Perché è importante ricordarlo, anche in Italia

Il 6 giugno 1944, gli Alleati americani, britannici e canadesi sbarcarono sulle coste della Normandia, nella più grande operazione anfibia mai tentata nella Storia. A ottant’anni da quel giorno, onorarne la memoria significa celebrare il ritorno della democrazia e lo sviluppo delle libere istituzioni, un’attenzione che nel nostro Paese trova ancora scarsa partecipazione. L’analisi di Gregory Alegi, professore di Storia degli Usa presso l’Università Luiss

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