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Durante una visita di stato in Arabia Saudita, il primo ministro libsnese, Saad Hariri, ha annunciato le sue dimissioni. Lo ha fatto alla televisione al Jadeed, dicendo di essere arrivato a questa decisione perché teme che qualcuno stia tramando per ucciderlo; secondo Al Arabya nei giorni passati ci sarebbe stato a Beirut un tentativo di assassinio, sventato, ai suoi danni (non ci sono altri riscontri se non quanto pubblicato dal network di notizie del regno saudita). “Stiamo vivendo in un clima simile all’atmosfera che c’era prima dell’assassinio del martire Rafiq Hariri. Ho capito che c’è una trama per attentare alla mia vita”, ha detto il premier facendo riferimento a suo padre, assassinato nel 2005. Hariri padre ha lasciato in eredità al figlio la guida di Movimento il Futuro, entità politica sunnita, che per dare un governo al Libano ha stretto un accordo con le fazioni sciite, anche con il partito/milizia Hezbollah.

HARIRI E I SUNNITI LIBANESI

C’è qualcos’altro dietro a questa scelta? “Dobbiamo innanzitutto precisare un aspetto, l’Hariri nominato premier del 2016 non è più il leader politico indiscusso della comunità sunnita libanese che per esempio conoscevamo nel 2009”, spiega a Formiche.net Matteo Bressan, Emerging Challenges Analyst presso il Nato Defense College Foundation: “I suoi alleati sono piuttosto critici con lui, perché sostengono che, al di là del suo ruolo istituzionale, le decisioni vere del governo vengono comunque prese da Hezbollah”. Bressan racconta che il caso che ha fatto infiammare ancora di più la situazione è stata la decisione di Beirut di nominare un ambasciatore a Damasco: una mossa che di fatto può essere vista come la definitiva legittimazione della vittoria di Bashar el Assad”.

LE CRITICHE ALL’IRAN

Durante il suo annuncio, Hariri ha criticato l’Iran, padre ideologico e finanziatore del movimento politico armato sciita del Partito di Dio. L’ex premier ha attaccato le ingerenze di Teheran negli affari interni del Libano. Giocare su queste influenze è uno dei capisaldi della politica espansiva che la Repubblica islamica sta muovendo in Medio Oriente per avere sempre più influenza (ed anche è uno dei motivi per cui l’amministrazione Trump ha deciso di decertificate il Nuke Deal iraniano). Ed Hezbollah è uno dei pilastri della politica estera iraniana. Bressan, che ha scritto nel 2013 “Hezbollah, tra integrazione politica e lotta armata”, dà una lettura ampia della scelta di Hariri: “Le dimissioni sono frutto della nuova politica americana nella regione: Donald Trump ha mandato un messaggio chiaro ai Paesi mediorientali che dice, in estrema sintesi, o state con noi, o state con l’Iran”. E annunciarle da Riad, fulcro della politica americana nella regione e soprattutto centro della divisione intra-islamica, è certamente una scelta dal forte effetto mediatico.

IL RUOLO DI ISRAELE

“Va dato merito ad Hariri – aggiunge Bressan – di aver cercato per lungo tempo di tenere il Libano distante dall’acuirsi di questa polarizzazione, perché sa bene che questo schema spinto da Washington può comportare l’innesco di instabilità a carattere regionale”. Israele è il principale degli attori coinvolti in questa che è una questione di politica internazionale più che una bega interna a Beirut? “Israele da mesi denuncia che il presidente libanese, Michel Aoun, è talmente connesso, appoggiato e sostenuto dagli Hezbollah (che lui ha sempre legittimano politicamente e militarmente), che se dovesse riaprirsi un conflitto come nel 2006, questo non riguarderebbe Israele ed Hezbollah, ma Israele e il Libano (vista la correlazione e legittimazione che Aoun dà al gruppo che in Europa e Stati Uniti viene inquadrato come organizzazione terroristica, ndr). L’attuale presidente, cristiano maronita come richiede la costituzione, è di fatto dagli inizi del 2000 il principale alleato politico degli Hezbollah”.

LO SCENARIO

Che potrebbe succedere? “È indubbio che il quadro in evoluzione che abbiamo davanti si presenta molto simile a quello che innescò la miccia nel 2006 (la guerra tra Israele ed Hezbollah, ndr), in cui potrebbero esserci altri selettivi raid israeliani, ai quali Hezbollah potrebbe rispondere in escalation, e portarsi dietro la corposa rappresaglia di Gerusalemme. Però un conto è fermare il passaggio di armi iraniane a un gruppo paramilitare, l’altro è l’inizio di un conflitto con sconfinamenti in Siria e attori esterni coinvolti: lo scenario sarebbe notevolmente peggiore dei sette anni di guerra siriana”. A proposito di attori esterni, chi gioca il ruolo chiave? “Gli Stati Uniti di Trump stanno portando avanti la linea urlata anti-obamiana sull’accordo nucleare, ma di fatto non hanno troppe opzioni per fermare la situazione. Per esempio, in questi giorni è uscita la notizia che alcuni alti ranghi dell’intelligence americana hanno incontrato a Damasco Ali Mamlouk, che è l’uomo che in Siria ha il polso politico-militare della situazione, ha relazioni con l’Iran e dunque può lavorare con Teheran, e con i russi”.

IL RUOLO DI RUSSIA E STATI UNITI

Ecco, appunto, la Russia: “Sì, Mosca, visto il peso militare e diplomatico che attualmente ha nell’area, e soprattutto in Siria, da cui nascono e si sganciano le dinamiche attuali, è l’unico paese che può evitare un confronto armato che coinvolga Israele”. “Non dobbiamo dimenticarci – ricorda Bressan – che Israele da sempre monitora ciò che accade in Siria tenendo d’occhio Hezbollah, ma il 7 settembre a Masyaf per la prima volta ha ammesso di aver compiuto un raid per bloccare uno scambio di armi fornite al gruppo dall’Iran. Si tratta di un cambio di postura, di un messaggio mandato agli americani e ai russi (che hanno deciso un cessate il fuoco in Siria che Israele considera deleterio per la propria sicurezza nazionale) con cui Gerusalemme comunica di aver messo delle red lines e di aver intenzione di non vederle oltrepassate”.

 

Libano, che cosa celano le dimissioni del primo ministro Hariri

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