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Che l’Italia abbia mostrato difficoltà ad inserirsi all’interno dei Paesi a più alto tasso di start-up è stato chiaro fin da subito, e vale a dire fin da quando, poco più di una decina d’anni fa, abbiamo iniziato ad importare da altri Paesi e da altre economie quella serie di lessici e di pratiche di investimento che promettevano un importante rilancio per l’economia, soprattutto in termini di economia innovativa. Promesse che non sempre sono state mantenute e per numerosissime motivazioni.

Alcune di tali motivazioni affondano in difficoltà in qualche modo strutturali, come ad esempio la struttura del nostro mercato del credito, la farraginosità del nostro sistema burocratico, gli elevati livelli di imposizione fiscale, la concentrazione della ricchezza in soggetti provenienti da scuole imprenditoriali differenti, un clima competitivo (e quindi capace di attrarre talenti) piuttosto eroso dagli anni di crisi e di trasferimenti all’estero, una generale propensione al risparmio piuttosto che all’investimento, una demografia tendenzialmente più adulta rispetto a quella presentata in altre economie dove il fenomeno delle start-up ha avuto maggiore successo, un basso tasso di alfabetizzazione tecnologica ed informatica, un tessuto universitario molto settorializzato, con differenti momenti di connessione tra persone che studiano o che si appassionano di materie diverse, una scarsa infrastruttura legata al trasferimento di conoscenza tra le università e le imprese, un basso tasso di capitalizzazione delle imprese esistenti. Così solo per citarne alcuni.

Malgrado tali elementi fossero noti già dall’inizio, la passione per le start-up, che al tempo si accompagnò alla prima ondata di entusiasmo legata alle smart-cities, non ha certo frenato gli entusiasmi. Neanche di coloro che, nei confronti di questo fenomeno, nutrivano maggiori dubbi. Fazione, questa, che si divideva in coloro che intravedevano in questa nuova forma di imprenditoria una leva per migliorare almeno parzialmente le dimensioni più obsolescenti del nostro sistema economico e produttivo, e l’altra, più cinica, che interpretava questo trend come un utile elemento per ridurre il livello di disoccupazione attraverso fenomeni di autoimprenditorialità. Come spesso succede: avevano tutti ragione.

Il fenomeno delle start-up italiano rimane marginale rispetto ad altre economie, ma non per questo è stato un completo flop. Malgrado scivoloni storici in ambiti legislativi, sono state poi introdotte condizioni che hanno rinnovato, almeno parzialmente, alcune prassi fantozziane che nell’era del digitale superavano di troppo la soglia del grottesco. Molte start-up hanno chiuso. Ma ci sono stati anche successi imprenditoriali notevoli. Un bilancio che, in definitiva, non di certo intende proclamare la morte del fenomeno, ma che allo stesso tempo tiene conto anche del fatto che quando in giro per il mondo si dice start-up, l’Italia non è il primo Paese che viene in mente.

Non necessariamente questa evidenza deve però essere interpretata come una lettera scarlatta a macchiar l’onore della nostra imprenditoria. La start-up, ed in particolare, la start-up innovativa, deve essere interpretato come un fenomeno su cui gli italiani hanno in. parte creduto, e che ha ottenuto e continua ad ottenere successi che, senza questo fenomeno, semplicemente non esisterebbero.

Bene che dunque si combatta per ottenere azioni volte a favorire questa dimensione, ma le numerose condizioni di difficoltà che hanno così tanto aumentato la distanza tra la rivoluzione potenziale e gli effetti reali, sinora sono state interpretate in modo univoco: da un lato l’economia innovativa, che era la strada del futuro, dall’altro gli impedimenti che segnavano invece il ritardo della nostra economia. Non che ciò sia falso, ma vale forse la pena introdurre un pensiero diverso: e se fossero le start-up a non essere adatte alla nostra economia? Se il futuro della nostra economia non fosse un modello che si basa su premesse che, in Italia, non avevamo e che ancora oggi fatichiamo ad avere? E se l’economia italiana, per sua composizione e per composizione della sua popolazione, avesse bisogno di trovare una propria strada all’innovazione imprenditoriale?

Le start-up in Italia, così come nel mondo, sono espressione di fenomeni imprenditoriali che riguardano soltanto una parte dei settori merceologici: medtech, biotech, cleantech, editech, aerospazio, cyber security, intelligenza artificiale, delivery, agritech. Sono i settori per i quali nel 2023 sono stati chiusi dei round di finanziamento secondo il report Startup Italia. Ma l’Italia, malgrado le dichiarazioni di una via italiana all’intelligenza artificiale riportate dalla nostra Premier, anche a fronte di evidenti endorsement internazionali, è famosa nel mondo anche per comparti produttivi che non abbiano “tech” come suffisso. Ci sarebbe la cultura, che troppo spesso genera entrate per il pubblico e costi per il privato; ci sarebbe la moda, che è stata famosa nel mondo e che è adesso praticamente tutta di proprietà internazionali; ci sarebbe il turismo, che tuttavia viene declinato come una spinta al luna-park piuttosto che come valorizzazione territoriale; ci sarebbe l’archeologia (e lì, si, che il suffisso “tech” avrebbe senso); ci sarebbe l’agroalimentare; e ancora ci sarebbero il design, la pubblicità, l’editoria, la produzione cinematografica, il settore teatrale, la danza, ci sarebbe l’architettura, l’edilizia, il restauro.

Se proprio dobbiamo trovare una “via italiana”, troviamola su cose che conosciamo, che ci rappresentano davvero nel mondo. Troviamo un’innovazione che agevoli il mercato di ciò che sappiamo fare, piuttosto che scimmiottare piani strategici che non tengono nemmeno conto, come fa notare Federico Fubini sul Corriere della Sera, delle enormi esigenze energetiche che l’implementazione dell’Intelligenza Artificiale potrebbe avere sul mercato italiano, che deve proprio ad una crisi energetica una gran parte dell’inflazione che adesso, e non prima, è divenuta percepibile nell’economia reale nelle sue concrete dimensioni. Continuino dunque le riflessioni e le sfide per rendere il nostro sistema economico sempre più efficace e più adatto alle start-up. Ancora molte obsolescenze procedurali necessitano di essere rimosse.

Ma si sviluppi, di pari passo, una riflessione legata alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale, con la sua “c” minuscola: quel patrimonio culturale diffuso che non riguarda necessariamente il settore culturale e che potrebbe conoscere una rapida espansione territoriale. Cerchiamo di trovare, in tutta questa innovazione, anche lo spazio per migliorare il nostro sistema economico su cose che abbiamo. Non per altro, ma con una popolazione in declino, e un numero di laureati nelle materie Stem che al 2022 era la metà della media europea, forse è il caso di riconsiderare un po’ anche coloro che magari studiano lettere.

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