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Si è parlato di design ed economia del lusso, fra artigianalità e innovazione, all’incontro “La moda italiana: creatività, tutela del marchio e modelli di governance”, ieri a Roma, nell’aula magna dell’Università Luiss Guido Carli. Al primo degli “Appuntamenti con l’ingegno”, volto a mettere in luce le caratteristiche di successo della moda italiana, sono intervenuti Emma Marcegaglia, presidente Luiss, Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo Economico, Fabio Corsico, direttore Relazioni istituzionali e Sviluppo Gruppo Caltagirone, Paola Severino, rettore Luiss, la presidente del Comitato Leonardo Luisa Todini, la caporedattrice del Tg1 Moda Barbara Modesti, alcune firme celebri della moda italiana, Nicola Bulgari, Brunello Cucinelli e Pier Luigi Loro Piana, i vertici di Accademia di Costume e Moda, Altagamma, Camera Nazionale della Moda Italiana, Confindustria Moda, Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, Fondazione Germozzi.

“L’analisi di Brand Finance svolta nel 2016 ha mostrato che il valore complessivo dei marchi italiani è cresciuto molto, che il brand “made in Italy” può rappresentare fino a 200 miliardi di dollari ed è in forte rialzo, attorno al 20% rispetto all’anno scorso”, ha esordito Emma Marcegaglia, che ha poi sottolineato l’aspetto industriale della moda, che talvolta viene dimenticato: “È una grande eccellenza italiana, in termini di di manualità artigianale, ma non solo: è anche un’industria importantissima, dove il nostro paese ha un primato forte. Si tratta di un settore che ha 90 miliardi di fatturato, 600mila posti di lavoro diretti, una quota di export intorno al 62%, pari a 54 miliardi di euro e una capacità di creare valore aggiunto straordinaria”.

Un settore industriale strategico di cui, per il ministro Carlo Calenda, le istituzioni hanno preso consapevolezza con un certo ritardo: “Siamo in debito con la moda per due ragioni: la prima è che il tessile italiano è stato investito, prima di ogni altro settore, dalle conseguenze più dure e selvagge della globalizzazione, ma abbiamo ritardato nel capire che non esiste per il paese possibilità di rimanere leader nella moda, e di produrre per grandi marchi internazionali, se non è leader nel tessile”. Inoltre, “la politica ha nutrito un pudore sbagliato e se ne è occupata come una materia in qualche modo superflua, per ricchi, dunque non meritevole di una particolare attenzione. È il contrario, invece: dietro la filiera della moda lavorano tantissime aziende piccole e medie”.

Un altro elemento di fragilità del sistema della moda italiana, ma sul quale si sta lavorando, prosegue il ministro, è stato la mancanza di coordinamento: “Abbiamo costruito un tavolo della moda integrato, focalizzato su un calendario che tenesse conto della necessità di attrarre più buyer dall’estero, più che delle esigenze dei gestori della filiera”. È stato necessario, prosegue, superare le tradizionali competizioni tra Milano, Firenze e Roma e concentrarsi su eventi di eccellenza: “Abbiamo fatto delle scelte nette. Se Roma non è in grado di dare continuità a un’iniziativa di livello internazionale, non avrà un’iniziativa sulla moda. Oggi c’è spazio solo per eventi di grandissimo livello, di profilo internazionale, che portino valore aggiunto e che diano ai buyer la motivazione per pagare un biglietto aereo che costa moltissimi soldi, tutto resto è fuffa”.

È intervenuto anche Fabio Corsico, sul valore aggiunto delle imprese familiari, che subiscono qualche pregiudizio, nonostante esempi eccellenti come Ferrero o Barilla: “Alcune caratteristiche sono comuni ai vari settori, ad esempio tutte le imprese nascono come familiari. Sono piccole, vanno meglio di altre e mediamente durano di più di aziende del Nasdaq”. Anche quando diventano grandi gruppi: “Rendono di più i grandi gruppi internazionali che sono nati da una famiglia e che oggi danno un grandissimo contributo al Paese, a prescindere dalla parte artigianale creativa. Cucinelli, Fendi o il gruppo Versace sono riusciti a mantenere in qualche modo un’identità con il proprio territorio, sono riusciti a essere mecenati. Portano avanti un progetto culturale”. Corsico, autore di un recente saggio su “Manager di famiglia”, ha poi sottolineato un momento delicato per ogni azienda, il passaggio generazionale: “Trasmettere il senso di imprenditorialità non è affatto scontato. In questo senso il passaggio successivo – diventare azionisti – è uno step difficile, perché è molto diverso dal fare l’imprenditore e allo stesso tempo, in questo settore, è una forte tentazione. Il tema è complesso: da un lato bisogna fare gli interessi della propria famiglia, dall’altro lato è necessario riuscire a tener vivi un brand, una storia una tradizione”. Non è un passaggio necessario: “Tantissime aziende storiche non sono quotate, come Ferrero o Barilla, non bisogna mitizzare questo passaggio”.

Castel Rigone, sul mappamondo, è un puntino piccolissimo, ma la sua moda, il suo stile e i suoi negozi sono in tutto il mondo. Brunello Cucinelli, dopo aver raccontato alcuni aneddoti sui primi passi che lo hanno portato alla costruzione del suo impero, ha dato qualche consiglio agli studenti in sala: “Mi raccomando, non studiate troppo. Io non ho studiato niente”, dice, ironico, “perché chi ha fatto il ‘68 puntava al sei politico. Dedicate una parte di vita ai rapporti umani, all’arte di farsi voler bene. Chiunque vi aprirà le porte. Quando ero bambino mi dicevano: se non studi vai a lavorare: il lavoro veniva vissuto come una punizione per il mancato studio, questo lo privava della dignità morale ed economica che ha sempre avuto. La scelta di un lavoro che si ama è un grande stimolo e una grande fortuna”.

 

 

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