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Quando sarà riconosciuto anche ai ricercatori italiani lo ius soli? Cioè il diritto di rimanere in Italia e di essere in grado di contribuire in modo importante allo sviluppo del Paese? Quando smetteremo di perdere il capitale investito per formarli, e di regalare ad altri Paesi i futuri ricavi legati al progresso scientifico nell’ambito, soprattutto, della ricerca traslazionale? Esiste in Italia un politico lungimirante che sia in grado di capire cosa significa la ricerca per un Paese che crede di appartenere alle economie avanzate?

Queste domande, volutamente provocatorie, sono purtroppo suffragate da dati incontrovertibili. L’Italia è al 30° posto per numero di addetti alla ricerca ed al 31° per percentuale di Pil investito in ricerca, ma è all’8° posto per produzione scientifica (dati Ocse 2016). Questo significa che i ricercatori italiani lavorano molto bene con pochi mezzi e con pressoché nessun riconoscimento. Oltre un anno fa al ministero della Salute era stata definita una proposta per inquadrare con contratti a tempo determinato e con una progressione di carriera legata alla produttività scientifica, il personale che attualmente lavora negli Irccs (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) con contratti di collaborazione continuativa e professionale o con borse di ricerca. Ad oggi non si è ancora ottenuto nulla, stretti tra vincoli di bilancio e decisioni su capitoli di spesa che non contribuiscono certo allo sviluppo del Paese e ne compromettono la capacità di generare ricchezza. Recentemente ed in prossimità delle scadenze prefissate è stato deciso dal ministero della Salute che solo il 60% dei fondi dedicati alla ricerca possa essere impiegato per il personale. La logica dietro questa decisione non tiene conto della realtà. Certamente un’attività di ricerca si basa anche su investimenti in tecnologia e materiali di consumo. Certamente personale amministrativo che si occupa di mandare avanti anche l’attività assistenziale è impropriamente retribuito attraverso questo strumento. Riteniamo che sia inutile nonché dannoso eliminare i contratti atipici o le spese sul personale ritenute improprie, se non si provvede per tempo a preparare qualche altro strumento che eviti di mettere in ginocchio la ricerca biomedica italiana, condannandola alla marginalità più assoluta.

È quindi essenziale che la legge di bilancio finanzi la stabilizzazione dei ricercatori come proposto dal ministero della Salute e che riconsideri la decisione di limitare al 60% i fondi della ricerca corrente, destinati al personale. Ci sono 3300 persone che hanno dato al Paese più di quello che hanno ricevuto e che hanno il diritto di vedere riconosciuto il proprio contributo alla ricchezza nazionale. Ci chiediamo se esiste in Italia un politico lungimirante che sia in grado di capire cosa significa la ricerca per un Paese che crede di appartenere alle economie avanzate. Si spera di sì ma non è rimasto molto tempo per scoprirlo.

 

Quando introdurremo lo ius soli per i ricercatori nella Sanità?

Di Sergio Barbieri

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