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“Gli americani stanno cercando di ingabbiarvi: se lo volete, allora fatelo, ma se volete il bene per voi stessi e la stabilità per il vostro Paese e la vostra economia, allora fermate le vostre cospirazioni contro di noi”, dice il leader di Ansarallah, Abdul Malik Al-Houthi, il cui cognome è più noto per indicare la milizia nordista yemenita che dal 2015 combatte nella guerra civile e contro una coalizione guidata dall’Arabia Saudita — e dallo scorso novembre ha destabilizzato le rotte dell’Indo Mediterraneo che solcano il Mar Rosso per dimostrare quanto è militarmente potente.

Nel virgolettato sopra, estratto da un discorso di domenica, il capo miliziano si rivolge direttamente alla leadership saudita ed è importante perché nel mezzo di un Medio Oriente frammentato da divisioni e conflitti, la stabilità raggiunta da un precario cessato il fuoco tra Houthi e Riad era uno dei pochi barlumi di speranza. Ma su quella stabilità influiscono una serie di disequilibri, fratture che — come spiegava Giuseppe Dentice (CeSI) analizzando questi nove mesi di guerra a Gaza — possono risentire dell’aumento delle tensioni tra la Striscia di Gaza e il Libano.

Gli Houthi hanno infatti dichiarato di aver aperto il fronte indo-mediterraneo per solidarietà con i palestinesi e rappresaglia contro Israele. Matrici simili potrebbero portarli ad azioni più complesse e ampie se le tensioni tra lo stato ebraico e Hezbollah dovessero esplodere in uno scontro aperto. I miliziani libanesi, quelli yemeniti il gruppo palestinese sono tutte organizzazioni politiche combattenti appartenenti al cosiddetto “Asse della Resistenza”, quell’insieme di unità armate dai Pasdaran con cui l’Iran ha creato un’internazionale sciita anti-sunnismo, antisemitica e anti-occidente — e Hamas, sunnita, vi aderisce per ragioni di convenienza generale.

I link con l’Iran, il ruolo in Medio Oriente, l’attività nell’Indo Mediterraneo contro la geoeconomia globale sono le ragioni che portano i ministri degli Esteri di Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Giordania, Egitto, Tunisia e Israele a Washington in questi giorni, invitati dagli Stati Uniti al Summit Nato. L’alleanza discuterà anche della crisi nella crisi innescata dagli Houthi. Le navi della missione europea “Aspides”, tanto quanto quelle della anglo-americana “Prosperity Guardian”, sono nei fatti assetti Nato, messi alla prova operativa tra le acque di Mar Rosso e Mar Arabico, contro i miliziani armati di droni e missili simili a quello che la Russia sta impiegando in Ucraina. Il contesto indo-mediterraneo è un test-bed tattico, oltre che una complessa sfida alla stabilità posta da un attore non statale sponsorizzato da Stati rivali.

“La mossa verso un’escalation aggressiva contro il nostro Paese è qualcosa che non possiamo mai accettare. Se gli americani riescono ad impigliarti, sarà un terribile errore e un grande fallimento, ed è nostro diritto naturale contrastare qualsiasi passo aggressivo. Se ti incastri di più, la nostra escalation sarà maggiore e non fare affidamento sugli americani; sono fallimenti”, dice ancora al Houthi, che teme lo step successivo alla destabilizzazione prodotta ai traffici del Mar Rosso: attacchi maggiori verso la sua milizia, anche nell’ottica di non far passare impunita a lungo la crisi creata alla stabilità commerciale globale.

Riad potrebbe avere interessi, dal non fermare gli americani all’assisterli, perché se gli Houthi diventano più forti (anche tramite dimostrazioni di forza come quella di poter deviare le rotte geoeconomiche globali) allora sarà più complicato negoziarci il futuro dello Yemen — che per il regno è un interesse strategico di sicurezza nazionale, vista la connotazione geopolitica. “I sauditi devono rendersi conto che i loro passi sconsiderati e sciocchi non possono essere tollerati e devono scendere dal loro percorso fuorviato”, dice il leader yemenita.

“Gli Stati Uniti ci hanno inviato messaggi che avrebbero spinto il regime saudita a prendere misure aggressive [contro di noi], e ci sono state visite americane in Arabia Saudita per questo motivo”, continua accusando Riad di essere al servizio di Israele e “all’obbedienza dell’America”. La ragione stretta che porta il leader degli Houthi a parlare è la decisione di alcune banche saudite di sospendere i trasferimenti di fondi in Yemen, che ha anticipato l’altra decisione di disabilitare l’aeroporto di Sanaa fermando i voli. Due mosse considerate ostili dagli Houthi.

“Gli americani vogliono coinvolgere l’Arabia Saudita in una guerra globale, il che significa che la situazione con noi [e l’Arabia Saudita] tornerà a quello che era al culmine dell’escalation […] Il nostro popolo sopporta perché crede che ci sia una battaglia importante e perché dà la priorità alla causa palestinese rispetto alla propria”, invece “i media sauditi servono chiaramente gli interessi israeliani”.

Di più: “Il regime saudita detiene ancora i membri di Hamas nelle carceri e criminalizza la posizione del movimento contro il nemico. Abbiamo offerto al regime saudita di rilasciare i loro piloti in cambio dei prigionieri di Hamas, ma si sono rifiutati per il bene del nemico”.

La voce del leader Houthi è ascoltata nella regione, e questo significa che certe dichiarazioni possono creare problemi alla leadership saudita a livello di equilibri interni, perché buona parte dei sauditi condivide la necessità di tenere posizioni più vicine ai palestinesi. È questo che frena la necessità strategica di una normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, con l’erede al trono Mohammed bin Salman che tiene particolarmente a cuore l’opinione pubblica dei propri cittadini. Ma Riad sa anche che la situazione prodotta dagli Houthi non è più sostenibile.

Perché gli Houthi minacciano ancora i sauditi

Mentre la destabilizzazione dell’Indo Mediterraneo continua, la guerra nella Striscia di Gaza e le connessioni con l’Iran arrivano sul tavolo del vertice Nato, il leader degli Houthi alza la posta e minaccia di riaprire dallo Yemen la guerra contro l’Arabia Saudita

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