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Da un lato la volontà di proseguire nelle relazioni con l’Ue anche alla voce doganale, dopo le mosse del governo Erdogan in seno alla Nato. Dall’altro il richiamo di investimenti e denari immediati, sponda cinese, che contribuiscono all’aumento del Pil interno. La Turchia gioca da tempo su due tavoli, con la possibilità di una partita win-win: con Bruxelles per l’unione doganale, migliorando l’accordo di Marmara del 1996; e con Pechino alla voce automotive. Due mosse che portano in grembo una serie di effetti, tanto commerciali quanto politici e geopolitici.

Punto di partenza

Primizia tra Ankara e Bruxelles: dopo il primo dialogo commerciale ad alto livello tra la Turchia e l’Unione europea, presieduto congiuntamente dal ministro del Commercio Ömer Bolat e dal vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis, si è manifestata la volontà turca di espandere l’unione doganale, con l’apertura da parte della Ue. Un passaggio, questo, che è anticamera di una nuova fase delle relazioni, dopo lunghi periodi di tensioni e incomprensioni. Le controversie in corso con Grecia e Cipro pongono ostacoli significativi a un rapporto davvero innovativo.

Negli anni ’90 un accordo commerciale tra Comunità europea e Turchia prevedeva la sua applicazione a beni industriali e a prodotti agricoli trasformati, perimetro che ha subito nel corso del tempo un allargamento a settori vitali come i servizi e l’e-commerce. La posizione del governo turco è che la comunità imprenditoriale turca e quella europea sono soddisfatte dell’attuale livello delle relazioni economiche, come dimostra il crescente volume degli scambi commerciali registrato nel corso degli anni. Nel 2023 è stato infatti di 211 miliardi di dollari, segnando un record. Per il prossimo futuro Bolat e Dombrovskis hanno rivolto un appello congiunto per superare i problemi riguardanti i visti.

Gli inciampi

Di contro vanno valutate alcune circostanze oggettive, come il fatto che Mosca avrebbe ottenuto circa 3 miliardi grazie ad un escamotage sulle sanzioni che consente alla Turchia di rietichettare il petrolio russo e di spedirlo nei paesi europei, circostanza messa nero su bianco dal paper dei think tank del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA) e del Center for the Study of Democracy (CSD). Ma non è tutto, perché il ministro delle Finanze turco Mehmet Şimşek ha chiesto recentemente che il suo Paese venga “fermamente riagganciato” all’Unione Europea, aggiungendo che Ankara e Bruxelles condividono “ugualmente la colpa” per il deterioramento delle loro relazioni negli ultimi anni. Ovvero l’intenzione di azzerare la situazione, senza mettere effettivamente sul piatto della bilancia responsabilità e azioni concrete (al netto di fughe in avanti e strappi).

Automotive

Non solo Turchia-Ue, il dialogo di Ankara coinvolge anche la Cina in maniera massiccia: il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il ministro dell’Industria e della Tecnologia Mehmet Fatih Kacır e il presidente e ceo di Byd Wang Chuanfu hanno firmato ieri un accordo per l’investimento in veicoli a nuova energia del valore di un miliardo. In Turchia verrà aperto uno stabilimento di produzione di auto elettriche e ibride ricaricabili con una capacità annuale di 150.000 veicoli e un centro di ricerca e sviluppo per tecnologie di mobilità sostenibile. Darà lavoro diretto a circa 5.000 persone e la produzione inizierà nel 2026. Una notizia che giunge pochi giorni dopo la decisione di Bruxelles di imporre tariffe provvisorie aggiuntive fino al 38% sui veicoli elettrici cinesi a seguito di un’indagine secondo cui i sussidi statali stavano ingiustamente indebolendo i rivali europei. La Turchia rafforza così il proprio status di porta d’accesso per gli investitori al mercato europeo attraverso l’Unione doganale, ma continua a giocare a poker su più tavoli.

Due tavoli, un solo leader. La partita di Erdogan con Ue e Cina

Da Byd un miliardo di investimenti nel Bosforo, che darà lavoro diretto a circa 5.000 persone e la produzione inizierà nel 2026. Una notizia che giunge pochi giorni dopo la decisione di Bruxelles di imporre tariffe provvisorie aggiuntive fino al 38% sui veicoli elettrici cinesi, a seguito di un’indagine secondo cui i sussidi statali stavano ingiustamente indebolendo i rivali europei. La Turchia rafforza così il proprio status di porta d’accesso per gli investitori nel Mediterraneo, ma continua a giocare su due tavoli

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