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“Corro per vincere”, aveva simpaticamente esagerato il solito Vittorio Sgarbi annunciando la propria candidatura a governatore della Sicilia nelle elezioni del 5 novembre. E poi designando a titolo lodevolmente risarcitorio, dopo le note peripezie giudiziarie, per l’assessorato alla legalità Bruno Contrada e alla sicurezza il generale Mario Mori. Che ha però rifiutato preferendo dare una mano al centrodestra nel movimento di Stefano Parisi: una mano che evidentemente Sgarbi, correndo in proprio, ha voluto negare in campagna elettorale, sino a procurarsi una telefonata apparentemente preoccupata di Silvio Berlusconi. Che sembra averlo compiaciuto ma non convinto, sinora, a ripensarci.

È sempre bizzarro, come si sa, il mio amico Vittorio. Bizzarro, ma per niente sprovveduto, perché politicamente egli è astuto come una volpe, almeno fino a quando il suo carattere non gli prende la mano e non gli fa fare lo scorpione in groppa alla rana.

Ci sarà stata pure una ragione per la quale l’ex parlamentare già sottosegretario di Berlusconi con la sua candidatura ha voluto sfidare in Sicilia anche, o soprattutto, il post-missino Nello Musumeci. Che corre per la terza volta, affiancato questa volta come vice dall’”indignato” Gaetano Armao, ormai di casa ad Arcore.

Se dovessero risultare confermati i sondaggi che attribuiscono generosamente a Sgarbi dal 3 al 5 per cento dei voti, specie ora che gli ha confermato l’appoggio l’ex governatore votatissimo Totò Cuffaro, e al centrodestra dovessero mancarne altrettanti per prevalere sul candidato grillino Giancarlo Cancellieri, o su quello concordato fra Matteo Renzi, Leoluca Orlando e Angelino Alfano, cioè il rettore dell’Università di Palermo Fabrizio Micari, nei panni di guastafeste Sgarbi dovrebbe tenersi a lungo lontano dai vari Renato Brunetta. Che in Forza Italia già cantano vittoria e scommettono sulla replica nazionale del centrodestra dopo qualche mese. Non parlo poi della prevedibile reazione furente di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, per i quali una vittoria sarebbe doppia avendo imposto il loro candidato ad un Berlusconi forse più scettico che entusiasta, visti i due tentativi già falliti di Musumeci di vincere in Sicilia.

Sgarbi sarebbe speculare a Claudio Fava, che a sinistra, sempre in Sicilia, si è spavaldamente proposto di far perdere la partita a Micari, e a Matteo Renzi, a causa dell’apparentamento con gli uomini dell’odiato Angelino Alfano.

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Ma il problema è che con uno Sgarbi guastafeste non è per niente detto che Berlusconi – telefonate di questi giorni a parte – si strapperebbe le vesti come il suo capogruppo alla Camera. In fondo – sussurrano i soliti retroscenisti – un infortunio al centrodestra in Sicilia non dispiacerebbe più di tanto all’ex presidente del Consiglio per l’uso che Salvini un giorno sì e l’altro pure mostra di voler fare di un successo, in funzione cioè di un centrodestra nazionale a trazione finalmente leghista e non più forzista, come nelle precedenti edizioni.

È una prospettiva, quest’ultima, che Berlusconi, anche lui un giorno sì e l’altro pure, mostra di non gradire per niente. E quanto più lo mostra, più Salvini lo incalza, per non dire peggio, mosso dall’eterna e per niente nascosta preoccupazione che Berlusconi dopo le elezioni politiche nazionali, ormai destinate a svolgersi con un sistema sostanzialmente proporzionale, abbia in mente e nel cuore altre coalizioni, altre maggioranze, altri alleati, cioè l’altro Matteo: Renzi. Che sa bene, a sua volta, di non poter contare per varie ragioni, politiche e personali, sull’aiuto di Berlusconi per tornare a Palazzo Chigi, ma ha anche imparato nel frattempo, grazie al successo dell’operazione Gentiloni da lui stesso voluta dopo la batosta referendaria del 4 dicembre scorso, che le carte si possono dare più facilmente da segretario del partito che da presidente del Consiglio. Lo dimostrano d’altronde i 50 anni e più di potere della Democrazia Cristiana, che diede la carte sia quando riuscì a guidare direttamente i governi sia quando lasciò che a guidarli fossero i propri alleati, piccoli o grandi che fossero, paciosi o baldanzosi, come le buonanime, rispettivamente, di Giovanni Spadolini e di Bettino Craxi.

Erano altri tempi, d’accordo: quelli della cosiddetta Prima Repubblica, che non erano poi così male, visto che si è appena deciso a rimpiangerli, e rivalutarli, persino uno come Antonio Di Pietro. Sì, proprio lui, Tonino per gli amici, che di quella Prima Repubblica è generalmente considerato, e non a torto, il becchino con i suoi metodi spicci di pubblico ministero e poi anche di politico, partecipe di entrambi i governi di Romano Prodi.

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La rappresentazione dietrologica di un Berlusconi intimamente e furbescamente sollevato da una sconfitta del suo centrodestra in Sicilia mi fa tornare alla mente l’arrabbiatura che feci prendere nel 1997 al compianto don Gianni Baget Bozzo, a cena col comune amico Gaetano Rebecchini, quando gli diedi la mia versione “a naso” della bocciatura di Giuliano Ferrara nel collegio senatoriale del Mugello. Dove fu eletto proprio Antonio Di Pietro, candidato in pratica da Massimo D’Alema in un posto blindatissimo della sinistra.

Lo spauracchio della vittoria di Ferrara, orgogliosamente passato negli anni precedenti dal Pci all’odiatissimo Psi di Craxi, fece convergere su Di Pietro molti voti di sinistra controvoglia, che diversamente sarebbero andati ad Alessandro Curzi, il mitico direttore di “Telekabul” – come gli avversari definivano il suo Tg3 – candidato linearmente da Fausto Bertinotti.

Berlusconi – perfidamente se apposta e fortunatamente se a caso – si tolse dallo stomaco in senso politico Di Pietro, collocatosi finalmente e stabilmente a sinistra dopo essere stato corteggiato allo spasimo, all’interno del centrodestra, dai post missini: tanto allo spasimo che Berlusconi nel 1994, formando il suo primo governo, aveva dovuto offrirgli, col consenso entusiastico dell’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, l’incarico di ministro dell’Interno. Ma Di Pietro aveva ringraziato rifiutando: anche allora – credo – col sollievo di Berlusconi.

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