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La cittadina siriana di Daraa è al capo opposto del paese rispetto ad Aleppo. Ma quanto accadde a Daraa nel 2011 può aiutarci a farci un’idea di quanto è accaduto lassù, ad Aleppo, quando la città è caduta in mano ai lealisti di Assad, sul finire del 2016. Daraa non è stata un’eccezione, ma una regola: “All’inizio di maggio del 2011 i militari e gli shabiha (i fantasmi), i miliziani filogovernativi, circondano la città. Mentre gli elicotteri sorvolano i quartieri, i soldati perquisiscono le case per scovare i “terroristi”. Tra questi Karim, il marito di Fatima, accusato di aver aiutato i feriti colpiti dai proiettili durante le manifestazioni di piazza. Quella sera lui non c’è. I soldati ordinano alla moglie di contattarlo. Fatima continua a ripetere che sono “quasi divorziati”, ma loro non le danno ascolto. Un ufficiale posa gli occhi sui due bambini presenti nella stanza. Fatima è presa dal panico. Per proteggerli, nega di essere la madre di Nora e del suo fratellino di cinque anni. Ma la bambina, terrorizzata, grida: “Mamma!”. “Prendiamo sua figlia in ostaggio finché il padre non si consegna”, annuncia l’ufficiale. Afferra Nora, per poi portarla in una base militare di Daraa, di cui non possiamo fare il nome per motivi di sicurezza. La notte stessa, il padre di Nora si presenterà alla sede dell’intelligence militare per costituirsi. Ma sua figlia rimarrà prigioniera per quarantacinque giorni, e Karim non farà mai ritorno.”

Questo è l’inizio dell’articolo di Cécile Andrzajieski e di Leila Minano, il miglior viatico che abbia trovato alla storia in cui dobbiamo entrare. Infatti secondo l’Unicef era fondato il timore che in Siria già nel 2013 fossero morti circa 11mila bambini. Secondo le stime pubblicate dall’organizzazione per la difesa dei diritti umani I am Syria , dall’inizio del conflitto siriano sono morti 470mila persone, delle quali 55mila sono bambini. Delle 16.913 vittime civili identificate soltanto nel corso del 2016 -e l’identificazione non è impresa da poco in quel mattatoio che è la Siria-, 8.736 sono state uccise dall’esercito regolare siriano, 3.967 dall’aviazione russa, 1.528 dai jihadisti dell’ISIS e della sigla che aveva dato la propria fedeltà ad al-Qaida (l’ex al-Nusra), 1.048 dai gruppi armati dell’opposizione siriana, 951 da varie formazioni armate, 537 dalle forze della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, 146 dai gruppi armati curdi. Difficile capire chi parla di Assad come di un “male minore”. Eppure bisogna provarci: questa idea, assai poco compatibile con la realtà siriana, si è diffusa, anche per via di un’azione a tenaglia: da una parte l’aggressione planetaria del terrorismo internazionale dell’ISIS e dei gruppi dell’estremismo salafita che hanno conquistato con un golpe militare ampi territori della rivoluzione siriana, violentandone finalità e attivisti. Dall’altra l’aggressione contro i siriani da parte del regime, che li ha presentati tutti come terroristi, milioni di terroristi, e ha negato la possibilità di accesso alla stampa indipendente, se non ponendola, come sempre ha fatto, sotto il proprio controllo. E così la Siria non è rimasta soltanto nascosta, ma la sua agonia di massa è divenuta persino una “liberazione”. I siriani ci hanno guardato storditi, increduli: nell’epoca di “Je suis…”, slogan adottato dal 7 gennaio del 2015 dopo la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo per sostenere la resistenza ad ogni minaccia armata, pochi dopo la caduta dei quartieri orientali di Aleppo nelle mani delle milizie alleate di Assad, che li hanno letteralmente svuotati dei loro abitanti, pochi hanno detto “Je suis Aleppo”. I siriani non sono vittime? E se lo sono, di cosa sono “vittime”?

Proviamo a farci un’idea di cosa fosse la Siria prima del 2011, prima cioè che cominciasse la sollevazione popolare contro il regime. Ricordo benissimo quel giorno del gennaio 2008 quando un collega libanese mi inoltrò il messaggio ricevuto da un suo collega siriano, che si raccomandava di non divulgare la sua identità. Lui aveva già ottenuto il visto d’ingresso in un paese europeo, lo aveva lì, sul suo passaporto. Per questo non immaginava che un agente della sicurezza avrebbe potuto convocarlo: “quando mi ha detto ‘lei non è autorizzato a partire’ ho sentito il mondo cadermi addosso. Eppure dovevo aspettarmelo, visto che questa pratica ha riguardato solo negli ultimi tempi 400 attivisti per i diritti umani, dissidenti, giornalisti. Questa proibizione a volte non deriva dal timore che chi si accinge a viaggiare possa partecipare a incontri “politici”. Fares Mourad, che ha trascorso 29 anni in carcere quale obiettore di coscienza, è morto perché gli è stata rifiutata l’autorizzazione a recarsi all’estero per sottoporsi a terapie urgenti.”

In quello stesso 2008 Sami Ma‘touk, di Syrian Human Right Watch è stato ucciso mentre camminava per strada ad al Mushayrifa, non distante da Homs. E Karam Youssuf, che scriveva per numerosi siti web, è stato ucciso, nel marzo del 2008, perché stava filmando il festival di Nayrouz, la festa curda d’inizio anno, proibita dal regime. Pochi mesi prima, sul finire del 2007, i partecipanti all’incontro per la firma della Dichiarazione di Damasco per il cambiamento democratico nazionale sono stati tutti arrestati. Ovviamente l’ex deputato Riad Sayf, presidente del segretariato generale della Dichiarazione di Damasco è finito dietro le sbarre come gli intellettuali che si erano impegnati con lui, Fida Hourani, Fayez Sara, Ali al-Abdallah, Jaber al-Shoufi, Talal Aboudan, Akram al-Benni, Ahmad Toma, Yaser al-Ayti, Walid el-Benni, Marwan al-Esh, Muhammad Hajj Darwish. Il reato contestato a tutti loro era lo spirito sovversivo del documento firmato, nel quale si legge:

“- L’islam è la componente culturale più importante nella vita del nostro popolo. La nostra civiltà è stata formata nella cornice delle sue idee, dei suoi valori, in interazione con le altre culture storiche nazionali attraverso la moderazione, la tolleranza e il mutuo interscambio libero da fanatismi, violenza, esclusione, nella costante preoccupazione per il rispetto di altre fedi, di culture sia religiose, sia confessionali, e nell’apertura a nuove contemporanee manifestazioni culturali.
Nessuno ha il diritto di pretendere un ruolo eccezionale. Nessuno ha il diritto di perseguitare ed usurpare il diritto all’esistenza, alla libera espressione e alla partecipazione.

– (Proponiamo di) Adottare la democrazia come sistema moderno che ha valori e basi universali, fondata su libertà, sovranità, istituzioni e il trasferimento del potere attraverso periodiche e libere elezioni.

– (Proponiamo di) Costruire uno Stato moderno, basato su un nuovo contratto sociale, che conduca a una Costituzione moderna e democratica che faccia della cittadinanza il criterio di affiliazione e adotti il pluralismo, il pacifico trasferimento del potere, lo Stato di diritto per tutti i cittadini in modo che abbiano gli stessi diritti e gli stessi doveri, di là di ogni distinzione di razza, religione, etnia, setta, clan, e si impedisca il ritorno della tirannia in nuove forme. […]”
L’arresto dei firmatari e dei promotori da noi non ha sorpreso, non ha fatto notizia, non ha destato preoccupazione. Chi si è certamente preoccupato è stato il regime siriano. E quando un piccolo gruppo di dissidenti tornò a riunirsi, ma non in un albergo, bensì davanti alla sede del Ministero dell’Interno, gesto di sfida che nessuno aveva mai osato portare nelle strade, davanti al simbolo del potere e della repressione, nel marzo 2011, ne trasse le “dovute” conseguenze. Dove si è arrivati?

siria, assad, aleppo

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