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Arriva a un certo punto e non rimane che la piazza. Quando la politica sembra non avere più senso, quando chi governa e chi fa opposizione sembra che non producano più democrazia ma solo vuoti cerimoniali di posizione, quando l’impazzimento generale sembra prendere il sopravvento sulla ragione e sulla vita, ecco che la piazza torna a proporsi come una risorsa vitale. Almeno lo fu per qualche generazione che ebbe la ventura di misurarsi in altra stagione con questo rito di purificazione collettivo, prima che la “Grande Disaffezione” prendesse la scena pubblica in modo irreversibile.

Le piazze, non quelle dei pullman a supporto del leader per la liturgia dell’ostensione di potenza organizzativa, ma quelle senza bandiere o con tutte le bandiere, quelle con dentro qualcosa di spontaneo, come lo slancio vitale di un popolo escluso, non sono più di moda. Il ricordo di quel sedici marzo ‘78 del sequestro Moro, può riportarci alla manifestazione spontanea di due mesi più tardi, il nove maggio, dopo il ritrovamento del cadavere, con la gente che dal Colosseo straripava verso il centro partecipando ad un moto collettivo in cui pietas, senso di costrizione e di impotenza, dolore e rabbia si mescolavano producendo un gesto pieno di politicità. Quel senso di offesa insopportabile, di danno senza riparo, del “dover fare qualcosa” per dire, non imprigionati nel solipsismo digitale dei social, ma insieme agli altri, con la propria voce, col proprio corpo, con la propria testa, tutto quello che c’è da dire per salvare la politica, la ragione, la regola suprema della pace, beh, quel senso ha ripreso per un poco a circolare con la piazza di sabato 15 marzo.

Qualcuno ha scritto: son tornati in piazza i ceti medi nel nome dell’Europa. Forse è vero: se i ceti medi sono l’asse portante della democrazia, la loro scomparsa, o il loro dileguamento, rappresenta la difficoltà principale della democrazia e la sua sconfitta ad opera della cacofonia populista. Ma forse ancora c’è speranza. Non so se l’Europa potrà effettivamente trarre giovamento dalla manifestazione di sabato. Anche le istanze che animavano la spinta europeista francamente non apparivano sempre nitidissime, non essendo ancora chiaro se tendessero al compimento di un riarmo europeo, di una rivendicazione di presenza, oggi esclusa, all’auspicato tavolo della pace, di una ricostruzione del proprio senso comunitario di fronte all’ormai ineluttabile disimpegno del partner occidentale d’oltreoceano. Di certo, però, la gente c’era, e non era stata portata lì per cavezza. Un buon segno? Forse. Comunque una traccia su cui lavorare per ricomporre il senso di una identità democratica collettiva.

I nostri costituenti ebbero a discutere di una proposta, che poi non passò, di riconoscere il “diritto di resistenza” in Costituzione, per mettere al riparo i posteri da tentazioni autoritarie di maggioranze elette con procedure democratiche. Probabilmente fecero bene ad omettere l’esplicita previsione, immaginando che la pedagogia democratica esercitata dalla stessa Carta avrebbe dovuto animare ogni giorno l’azione positiva dei cittadini per impedire svolte antidemocratiche. Anche scendendo in piazza.

Phisikk du role - Dalle piazze può nascere una nuova identità democratica

Qualcuno ha scritto: son tornati in piazza i ceti medi nel nome dell’Europa. Forse è vero: se i ceti medi sono l’asse portante della democrazia, la loro scomparsa, o il loro dileguamento, rappresenta la difficoltà principale della democrazia e la sua sconfitta ad opera della cacofonia populista. Ma forse ancora c’è speranza. La rubrica di Pino Pisicchio

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