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(Terza parte di un testo più articolato. La seconda parte si può leggere qui).

La crisi ha prodotto squassi: a partire dal 2007, il debito dell’Italia è cresciuto di 33,4 punti arrivando al 133,2% del pil nel 2016. Quello francese ha allungato il passo di 32,7 punti, arrivando al 97,1% del pil. Solo la Germania ha dominato gli eventi, con il debito pubblico salito dapprima all’81% nel 2010, un livello identico a quello francese, per poi abbatterlo al 68,2% di quest’anno.

La Francia, nonostante tutto, tra il 2007 ed il 2017 avrà accumulato una crescita del 9%, rispetto al 13,8% della Germania, il 12,5% degli Usa ed il 15,5% del Regno Unito. Non avrebbe proprio di che lamentarsi rispetto alla flessione del 5%  registrata dall’Italia. Il saldo primario accumulato spiega tutto, con due soli Paesi in attivo: Italia +14% e  Germania +12%. Tutti gli altri sono in passivo: -23,5% Francia, -44,6% Usa, -48,5% UK. L’afflusso di enormi risorse finanziarie in fuga dal resto d’Europa per timori di default ha rimesso in sesto le scassatissime banche tedesche: l’Italia, come già nel ’92, ha fatto e fa tuttora da agnello sacrificale allo Sturm und Drang tedesco.

È evidente che la rotta della economia reale francese coincide esattamente con quella italiana, ma comparativamente fa peggio. Il saldo positivo del commercio estero italiano dipende dal congelamento delle importazioni. Occorre riflettere a fondo sulle asimmetrie europea, che l’euro ha enfatizzato. Abbiamo adottato pedissequamente il modello di sviluppo e l’assetto monetario e di bilancio della Germania, cui questa si è conformata strutturalmente – costrettavi dagli eventi internazionali – nel corso di un secolo. Basta ricordare una delle clausole fondamentali del Trattato di Versailles relative al pagamento delle Riparazioni: era dovuta una somma corrispondente al 25% del valore delle esportazioni tedesche in ogni periodo di 12 mesi a partire dal 1921, ed in aggiunta una somma supplementare eguale all’1% delle esportazioni.

Sin dai primi anni Venti, l’economia tedesca fu quindi obbligata ad assumere un assetto di crescita totalmente asservito alle esportazioni. Questa esigenza si radicò viepiù, dopo gli esiti del ritiro dei capitali americani a seguito della crisi del ’29 e delle politiche protezionistiche che ne seguirono: rapporti internazionali bilaterali, basati sullo scambio tra materie prime e prodotti finiti, consentirono alla Germania di crescere in conto lavorazioni per paesi terzi.

Ed ancora, nel secondo dopoguerra, si vietarono alla Germania sconfitta la nazionalizzazione delle imprese, il disavanzo del bilancio pubblico ed il suo finanziamento monetario da parte della Bundesbank: gli Usa imposero queste regole per evitare una ripresa tedesca sul modello che era stato congegnato negli anni del Terzo Reich dal Governatore della Bundesbank Hjalmar Schacht. Ancora una volta, dunque, l’economia tedesca dovette puntare sull’export. La Germania si riprese con determinazione. E tanto fu imponente il successo tedesco, che già nel 1985,  con gli Accordi del Plaza, gli Usa imposero alla Germania di incentivare la domanda interna sostituendo il boom delle esportazioni. Queste erano state trainate dalla eccezionale rivalutazione del dollaro, determinata dalla politica degli alti tassi decisa da Paul Volker, allora Governatore della Fed.

Solo la incombente presenza delle truppe di occupazione consentì agli Usa di ottenere la rivalutazione del marco. Gli Accordi del Louvre, nel 1987, contrastarono le conseguenze depressive di un dollaro ormai troppo basso: ma, ancora una volta, due Paesi in surplus commerciale, Giappone e Germania Occidentale, avrebbero dovevano adottare politiche reflazionistiche volte all’espansione della domanda interna, in special modo perseguendo un basso costo del denaro. La caduta del Muro di Berlino, però, si approssimava, e la Germania si rifiutò di fare da traino alla ripresa europea, preferendo accumulare risorse in vista della Riunificazione. Furono le decisioni della Bundesbank, a cavallo tra il ’90 ed il ’92, a sbigottire la Francia: il rialzo violento dei tassi, volto a spegnere il focolaio di inflazione determinato dal cambio 1:1 con i marchi orientali schiantò l’equilibrio dell’area, richiamando enormi quantità di capitali in Germania.

La speculazione si insinuò, su una strada spianata. Solo la moneta francese non fu travolta, ma quel salvataggio da parte della Bundesbank fu la sua rovina. Mentre la svalutazione della lira italiana e della sterlina restituì vigore ai rispettivi export, la Francia rimase inchiodata ad una parità sul marco, mai più rimessa in discussione. Peggio, Chirac si illuse di sottrarre l’Europa alla insostenibile dominanza del marco, sostituendolo con l’euro: ma non fece che estendere all’intera Europa un modello di crescita economica ed uno statuto monetario del tutto estranei alla sua cultura. Trascurò, soprattutto, il vantaggio competitivo immenso che la Germania acquisiva nel momento in cui oltre 20 milioni di tedeschi dell’Est entravano a far parte di un complesso produttivo che non aveva altro bisogno che di manodopera a basso costo.

Tanto tempo è passato, ma le crepe di quella costruzione si fanno più vistose. Il Presidente François Hollande è venuto meno agli impegni assunti in campagna elettorale, quando aveva promesso di rinegoziare il Patto di stabilità e crescita, di modificare il ruolo della Bce per uniformarlo a quello delle altre principali Banche centrali, e di istituire gli Eurobond. Se gli eredi di Nicolas Sarkozy pagarono nel 2012 l’eredità di quel Presidente che andava a braccetto con la Cancelliera Angela Merkel condividendone la politica di rigore, ora non è solo la Francia ma l’intera Europa che paga il tradimento delle promesse elettorali fatte dal candidato François Hollande.

Tutti invocano decisioni coraggiose, perché così la Francia non può andare avanti. C’è chi vuole una sterzata liberista come Fillon, e chi insiste sulla necessità di riforme strutturali come Macron. A tenaglia, Le Pen e Mélenchon chiedono uno strappo, sull’euro e l’Europa, in nome della identità dei popoli e dei diritti sociali.

Troppe domande sul passato, anche in Francia, non trovano ancora risposta.

(3.fine)

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