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Le opposte difficoltà che Occidente e Oriente trovano nell’impostare correttamente i temi della libertà religiosa, della libertà di coscienza e della libertà di conversione mostrano bene come il dovuto assenso alla verità sia sempre drammatico perché la libertà deve decidere sempre e di nuovo in ogni suo singolo atto. Come? Attraverso la strada, talora impervia, della testimonianza intesa come atteggiamento a un tempo pratico e speculativo a cui nessuno, tantomeno il cristiano, può sottrarsi. La testimonianza, infatti, ci costringe a offrire ai nostri interlocutori di altre religioni tutta la fede cristiana. E ciò è possibile solo nel reciproco coinvolgimento, perché è vano illudersi che all’uomo possa essere risparmiata l’avventura dell’incontro con l’altro, dal momento che ciascuno di noi nasce e cresce in forza di rapporti.

Il termine testimonianza, tuttavia, rischia di suscitare immediatamente un’obiezione, o almeno un fraintendimento. Poiché – si dice – la testimonianza comporta una proposta veritativa e questa è generalmente considerata come un ostacolo all’incontro con l’altro, si dovrebbe dedurne che l’una posizione escluda l’altra: o si fa incontro oppure si fa testimonianza. In realtà, la possibilità stessa dell’incontro risiede nell’inesauribile ricerca della verità intesa in modo dinamico, cioè come ininterrotto rapporto dialogico tra incontro stesso e proposta oggettiva di ciò in cui si crede. Per questo, è falso dire che la testimonianza culmini nel fondamentalismo. Al contrario, il fondamentalismo, sacrificando la differenza, tradisce la testimonianza, perché spezza il binomio verità-libertà.

La proposta cristiana, rispettosa del nesso verità- libertà, dovrebbe essere molto familiare a noi europei. Le radici giudaico-cristiane dell’Europa sono, infatti, ben significate dall’attuarsi, nella nostra storia, del principio della differenza nell’unità, che trova la sua origine nella stessa realtà trinitaria del Dio cristiano. Questo principio può essere considerato il fondamento teoretico di quella che Rémi Brague ha chiamato la secondarietà romano-cristiana, la capacità cioè di recepire e trasmettere, facendolo evolvere nell’incontro con il nuovo, ciò che, pur essendo ricevuto e non prodotto direttamente, era considerato come primario: la sintesi tra Atene, Gerusalemme e Alessandria.

È in questo senso che l’identità europea si presenta come intrinsecamente dialogica. E questa dimensione del dialogo ci riconduce, in una relazione circolare, a quelle dell’identità e della testimonianza. Infatti, il dialogo scaturisce dalla consapevolezza dell’irriducibile valore dell’altro, come fattore che obiettivamente rivela me a me stesso, indicando al mio desiderio di compimento la strana necessità di un sacrificio benefico. Questo vale sia per il soggetto personale, sia per i soggetti comunitari. Se non vuole spegnersi in un monologo sterile, il soggetto è chiamato, per l’impossibilità di tracciare le frontiere del dialogo a priori, a superare il criterio della pura reciprocità per situarsi nel suo concreto autoesporsi. Ma, affinché l’altro non finisca per annullare sia l’io sia il tu, è necessario il peso costitutivo di un terzo.

Proiettandosi nella dimensione del vivere insieme, l’autoesposizione testimoniale esige di essere ordinata dal terzo rappresentato in questo caso dalla politica, dalle istituzioni e dallo Stato, ma più in particolare dai corpi intermedi della società, che sono i luoghi in cui il dialogo – e in particolare quello interreligioso o interculturale – hanno o non hanno luogo. Per questo tocca allo Stato sinceramente democratico, e perciò capace di valorizzare la presenza dei corpi intermedi, garantire il contesto di ordine, pace e benessere necessario perché la logica della testimonianza, e quindi della ricerca della verità nella libertà, possa essere concretamente vissuta.

Cardinale Angelo Scola

Il fondamentalismo e la libertà religiosa

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