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“Ognuno fa il suo mestiere”, ha risposto Vudcuc, come si pronuncia in italiano il complicato cognome inglese del magistrato che indaga a Napoli sulla Consip e dintorni, commentando lo scetticismo ribadito dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi sulle troppe inchieste giudiziarie che in Italia non vanno a sentenze, o vi arrivano male e troppo tardi. Male, perché perdono per strada parecchi indagati, a volte persino tutti. Troppo tardi, perché si fermano al primo o al secondo grado, ma più spesso al primo, per la sopraggiunta prescrizione.

Vudcuc ha pure tentato un sorriso davanti agli operatori televisivi con l’aria di chi sa il fatto suo e non teme niente e nessuno. Com’è d’altronde giusto che faccia un magistrato, il quale peraltro risponde della sua produttività, chiamiamola così, non al primo che gli passa davanti, fosse pure il presidente del Consiglio in carica, ma agli organi di autogoverno delle toghe preposti alla sua carriera. Provate a sostituirvisi e vedetene gli effetti.

Lo si è avvertito, proprio poco prima che Lilli Guber passasse la linea al collega di rete Corrado Formigli, nello studio di Otto e mezzo. Dove la pur pugnace Annalisa Chirico, in competizione sul terreno degli scoop giudiziari con Marco Travaglio, in collegamento dal suo Fatto Quotidiano, ha detto di avere paura di parlare di Vudcuc attribuendogli l’abitudine – vedete come sto attento nell’uso delle parole? – o di denunciarla o di “convocarla”. Che, ad occhio e croce, dovrebbe significare che Vudcuc o l’ha denunciata o l’ha chiamata per qualche indagine almeno come testimone.

Solo la buonanima di Francesco Cossiga, prima nella sua blindatissima posizione di presidente della Repubblica, ed anche del Consiglio Superiore della Magistratura, e poi con la copertura dell’immunità parlamentare spettatagli come senatore di diritto e a vita, potette permettersi il lusso, o il gusto, di parlare con una certa disinibizione di Vudcuc, sotto le cui lenti giudiziarie era finito anche qualche amico o collaboratore del “picconatore”.

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Grazie alla diversità dei loro mestieri, Renzi è corso al Lingotto, a Torino, per lanciare o rilanciare la sua nuova candidatura alla segreteria del Pd proprio nel luogo dove il partito nacque, meno di dieci anni fa, e fu battezzato laicamente da Walter Veltroni con un discorso tutto rivolto al futuro e alla cosiddetta vocazione maggioritaria. Che significava volontà di cercare e ottenere il consenso elettorale necessario a governare senza farsi condizionare, ma più spesso paralizzare, da alleati, organici o disorganici che fossero, capaci di gridare, reclamare, minacciare e ottenere in un ordine inversamente proporzionale alla loro consistenza parlamentare.

Di quel modo allucinante di guidare il Paese aveva già fatto le spese Romano Prodi col suo famoso governo dell’Ulivo nel 1998, cadendo dopo poco più di due anni dall’esordio. E ne stava rifacendo le spese in quel 2007 lo stesso Prodi con il governo dell’Unione, edizione aggiornata e non meno sfortunata dell’Ulivo.

Infatti dopo sette mesi circa dalla nascita del Pd il professore emiliano rotolò di nuovo e si portò appresso le Camere, sciolte in anticipo dallo sconsolato presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che giurò a se stesso di non sciogliere più nulla in vita sua, anche a costo di ricorrere nell’autunno del 2011, caduto l’ultimo governo di centrodestra di Silvio Berlusconi, ad uno squadrone di tecnici guidato in loden da un Mario Monti promosso contemporaneamente anche senatore a vita,  avendogli Napolitano riconosciuto, a suo insindacabile giudizio, di avere “illustrato la  Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, secondo la formulazione dell’articolo 59 della Costituzione.

Escluse – credo di poter dire – performance artistiche o letterarie, Monti si guadagnò evidentemente il ben remunerato laticlavio sul terreno sociale e/o scientifico, negli anni vissuti a Bruxelles come commissario europeo o in quelli ben più numerosi dell’insegnamento universitario.

Della vocazione “maggioritaria” del Lingotto del 2007 è rimasto ormai ben poco. Anzi, non è rimasto nulla. L’irruzione parlamentare dei grillini, la conseguente fine del bipolarismo, sia pure all’italiana, il recupero del sistema proporzionale, con cui sembra che si finirà per votare la prossima volta, condannano ormai i partiti a vocazioni, direi, più minoritarie che maggioritarie. Si torneranno a fare le coalizioni di governo, con i piccoli capaci di condizionare i grandi, dopo le elezioni e non prima.

Ma va detto che lo stesso Veltroni – il mio carissimo amico Walter – diede una bella mazzata alla sua vocazione maggioritaria apparentandosi nel 2008, alle elezioni politiche anticipate, col partito dell’Italia dei Valori, bollati, di Antonio Di Pietro. Che condizionò il Pd all’opposizione, su una linea giustizialista, non meno di quanto non avesse già condizionato nella maggioranza il secondo ed ultimo governo Prodi.

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Grazie, dicevo, ai loro diversi mestieri, Renzi è andato a Lingotto per cercare di riconquistare la segreteria del Pd e Vudcuc continua a indagare sulla Consip e dintorni cercando di trovare i riscontri necessari a fare quadrare tutti i sospetti, compresi quelli che hanno già portato ad un lungo interrogatorio, di magistrati napoletani e romani, il papà di Renzi, Tiziano. Che è accusato di traffico di influenze illecite anche perché l’iniziale del suo nome -T- è stata trovata, scritta dall’arrestato Alfredo Romeo, in un pizzino accanto alla cifra di 30 mila euro mensili: un pizzino strappato ma recuperato  fra le immondizie e ricomposto dai Carabinieri del nucleo operativo ecologico, prima che il capo della Procura di Roma decidesse di rivolgersi nelle indagini ad altri Carabinieri per fermare le troppe fughe di notizie.

Ora è chiaro che quel pizzino, accompagnato peraltro dalla smentita di Romeo di avere mai incontrato il padre di Renzi, richiede quanto meno di sapere se quella T appartiene davvero al Tiziano di Rignano sull’Arno e se quei soldi gli sono stati dati davvero, o ne fosse stato disposto l’accredito o la consegna. O sbaglio, dottor Vudcuc?

Perché Matteo Renzi al Lingotto di Torino rottamerà il veltronismo

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