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Con il presidente americano Trump ai Campi Elisi, Parigi, invitato dal presidente francese Macron alle celebrazioni del 14 luglio per la presa della Bastiglia, si chiudono dieci giorni densi di avvenimenti sulla scena internazionale. E si moltiplicano gli indizi che inducono a intravedere tempi non facili per la locomotiva tedesca, e quindi per la macchinista, la cancelliera Angela Merkel. Le manovre di accerchiamento sono cominciate, vedremo se assumeranno le sembianze di un vero e proprio assedio a Berlino perché si decida a modificare le sue politiche europee e commerciali.

Forte della sua ambizione e di una solida maggioranza parlamentare, Macron è determinato a riequilibrare il motore franco-tedesco prima che vada fuori giri. Ed è pronto a giocare di sponda con Trump, sfidando persino l’impopolarità del presidente Usa, invitato a cena sulla Tour Eiffel e alle celebrazioni del 14 luglio (con i militari americani ad aprire la parata ai Campi Elisi). Serve luce verde da Washington inoltre per i suoi sogni di “grandeur”: la guida della difesa europea e la supremazia francese nel Mediterraneo.

Macron è una buona carta anche per gli Stati Uniti, che hanno sempre sostenuto il progetto europeo, ma non sono contenti della piega germano-centrica che sta prendendo. L’Ue serve a garantire stabilità e benessere agli europei. Gli attuali squilibri, accentuati dalle politiche e dal primato di Berlino, potrebbero non essere sostenibili nel medio periodo e rischiano di compromettere sia stabilità che benessere dell’Europa, indebolendo l’Occidente. Una Germania europea, non un’Europa tedesca avevano in mente gli americani quando hanno sostenuto la riunificazione nel contesto dell’integrazione europea.

Poi c’è la Russia, che preme ai confini orientali dell’Europa. A difesa dei paesi dell’Est, un mercato prezioso per Berlino, non ci sono certo le truppe della cancelliera, ma la Nato, ovvero l’arsenale americano. E nel pieno della crisi con Mosca per l’Ucraina, nonostante il regime di sanzioni, con le sue scelte di politica energetica, tra cui il raddoppio del gasdotto North Stream, la Germania (e l’Ue con essa) ha accresciuto anziché ridurre la dipendenza dal gas russo. Una prospettiva che non può far piacere a Washington.

Ma facciamo un passo indietro. Il G20 di Amburgo si prestava come palcoscenico ideale per l’esordio sulla scena internazionale della “nuova leader del mondo libero” (e liberal), la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia, già alla vigilia si era compreso che qualcosa non tornava, se per far apparire isolata l’America di Trump sul clima aveva dovuto ostentare l’appoggio di Russia e Cina, non esattamente due fari del liberalismo (e ovviamente Putin e Xi non si sono lasciati pregare…), ma soprattutto se la cancelliera, che così meticolosamente in questi mesi ha coltivato il ruolo di Berlino come alfiere del libero commercio e della globalizzazione contro le minacce protezionistiche trumpiane, si era trovata sulla scrivania la seguente storia di copertina dell’Economist: “Il problema tedesco. Perché il surplus commerciale della Germania fa male all’economia mondiale”. Ma come, l’organo “ufficiale” dell’intellighentzia “global”, dell’ordine economico liberale, che rilancia la stessa identica critica sollevata dall’amministrazione Trump all’indirizzo di Berlino?

Se poi, a leggere la dichiarazione finale del G20 di Amburgo, sulla falsa riga di quella sottoscritta a Taormina, gli echi trumpiani sembrano addirittura dare il tono all’intero documento, non è esagerato parlare di una brutta sconfitta casalinga per la Merkel.

Né i leader del G7 riuniti a Taormina, né quelli del G20 ad Amburgo vedono più la globalizzazione come un fenomeno dalle magnifiche sorti e progressive, anzi ammettono che non tutti ci hanno guadagnato, ci sono dei “perdenti”, dei “dimenticati” – quei dimenticati che hanno portato Trump alla Casa Bianca – e riconoscono che “rimangono delle sfide per realizzare una globalizzazione inclusiva, corretta e sostenibile”, servono politiche di aggiustamento per mitigarne gli effetti distorsivi.

Ribadito l’impegno per il libero commercio e a “tenere i mercati aperti”, tuttavia di fronte “alle pratiche commerciali scorrette” si riconosce “l’uso di strumenti legittimi di difesa commerciale”. Strumenti che – come abbiamo già scritto per Formiche.net – non fanno solo parte dell’arsenale negoziale del presidente americano, ma sempre più sono invocati anche dai principali soci del club Ue – Francia, Italia e la stessa Germania – per rispondere alle “scorrettezze” cinesi. Nero su bianco, nel documento troviamo le doglianze americane ed europee nei confronti di Pechino sia sul tema dell’acciaio, per la sua eccessiva capacità produttiva, che per il dumping sul costo del lavoro, essendo il mercato cinese ancora lontanissimo dai nostri standard sociali, ambientali e di diritti umani.

A ben vedere nemmeno sul clima la cancelliera tedesca può contare un punto inequivocabilmente a suo favore. Ammesso e non concesso di poter isolare gli Stati Uniti su un tema come il clima, che certo non è alla base dei rapporti transatlantici, l’accordo di Parigi viene sì definito “irreversibile”, ma nella dichiarazione si legge anche che verrà applicato “con differenziate responsabilità e rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali”. Insomma, una sorta di “liberi tutti”, ognuno lo interpreti come vuole… E il presidente turco Erdogan ha già fatto sapere che se non arriva il bonifico dai paesi ricchi la Turchia è anch’essa pronta a uscire dall’accordo.

Sull’immigrazione infine, viene confermato l’approccio già uscito da Taormina: i leader del G20 sottolineano “il diritto sovrano degli stati di controllare e difendere i propri confini e perseguire politiche nel proprio interesse nazionale e per la propria sicurezza nazionale”.

Dichiarazione del G20 a parte, a rubare la scena alla Merkel sono stati il discorso di Trump in Polonia e il primo faccia a faccia tra il presidente americano e quello russo, dal quale (doveva durare mezz’ora, senza un’agenda prefissata, ma è durato due ore) è scaturito il primo cessate-il-fuoco a firma Usa-Russia in Siria, sebbene parziale. Certo, le cronache della stampa mainstream vi hanno raccontato altro, ma è comprensibile: il discorso di Varsavia e il primo confronto Trump-Putin hanno contraddetto la narrazione del giornalista collettivo sul nuovo inquilino della Casa Bianca in almeno due aspetti fondamentali. Trump non è il “puppet” di Putin. E l’America di Trump è tutt’altro che isolazionista. “America First” non significa “America alone”, come hanno spiegato di recente sul WSJ i consiglieri del presidente McMaster e Cohn. Semmai, vuol dire che l’America è tornata.

(1.continua; la seconda parte domani)

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