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Da quando tre giornalisti di alto livello della CNN si sono dimessi perché hanno fatto uscire online una storia su un collaboratore di Donald Trump non falsa, ma inadeguatamente corroborata secondo gli standard dell’azienda, il presidente americano è salito in trincea e come un cecchino ha attaccato tutti i media che con lui sono più severi. È un’operazione molto propagandistica che, sovvertendo il merito delle dimissioni dei tre – non per zelo dopo l’errore, ma perché mentivano, dice DT – aiuta Trump a dire ai fan che contro di lui sono state montate un mucchio di bugie solo per screditarlo, evocazione a una sorta di complotto che piace al pubblico trumpiano: e “riguardo a tutte le altre storie fasulle che scrivono? FAKE NEWS!” (i caps lock sono testuali) dice Trump in uno dei tweet con cui ha commentato la vicenda della CNN.

PERCHÉ IL WAPO È IL BERSAGLIO PREFERITO

Nel mirino di Trump c’è ovviamente anche il Washington Post. Il presidente detesta il giornale per una ragione semplice: è quello che nel tempo ha fatto uscire più scoop urticanti su di lui, e in particolare sul Russiagate. Dal video in cui faceva commenti osceni e misogini pubblicato durante la campagna elettorale, a cose più sostanziose come per esempio l’avvio dell’approfondimento dello special consuel che coordina l’inchiesta sulla Russia per verificare se Trump abbia o meno cercato di intralciare il corso della giustizia, o le indagini sul genero Jared Kushner, o ancora, separatamente, la notizia del segreto di intelligence spifferato ai russi in visita alla Casa Bianca; a causa delle informazioni ottenute e pubblicate dai giornalisti del WaPo, inoltre, l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Flynn, scelta di cuore del presidente per quel ruolo, è stato costretto a dimettersi in uno dei passaggi principali della storia sulle potenziali collusioni con Mosca del team-Trump – i contatti con i russi di Flynn. Da ultimo, David Fahrenthold, giornalista del WaPo che per la copertura della campagna elettorale di Trump ha vinto un Pulitzer quest’anno, ha fatto uscire tre giorni fa una storia che pare abbia irritato parecchio il presidente: ha scoperto che nelle hall di almeno cinque campi da golf col marchio Trump (quelli costruiti dalla Trump Organization) c’è esposta una copertina di Time del 2009 che riporta Trump in prima pagina, ma è falsa – Trump non c’era sulla copertina di quel numero.

L’ATTACCO CONTRO WAPO, AMAZON E BEZOS

Negli stessi minuti in cui quest’ultima spigolatura di costume rimbalzava online, la vice portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders, era sul podio della press room a dire che i media sono “vergognosi” (in un corto circuito che ha fatto sorridere chi pensava ‘ma allora perché inventarsi per vanteria di essere sulla copertina di Time?’, mentre l’intervento agguerrito in difesa dei media di Brian Karem, giornalista che per due quotidiani del Maryland copre Washington, durante quella stessa conferenza stampa stava diventando un pezzo da collezione nel racconto della presidenza Trump). L’attacco di mercoledì contro il WaPo e Amazon rientra in questo contesto, e ha due pecche iper visibili: la prima, inquadra Amazon come proprietario del giornale, quando invece è Bezos come investimento personale ad averlo comprato; seconda, non si capisce bene a cosa alluda Trump quando parla di “internet taxes” da pagare (la Casa Bianca non ha fornito commenti per chiarimento).

I PRECEDENTI

Già durante un’intervista dello scorso anno, Trump aveva detto che Bezos “sta usando il Washington Post per avere potere, in modo che i politici di Washington non tassino Amazon come dovrebbero essere tassati” e durante un comizio elettorale di febbraio 2016 aveva promesso che Amazon avrebbe avuto “diversi problemi” se lui fosse diventato presidente. Pure nel 2015 aveva scritto in un tweet che l’acquisto del WaPo da parte di Bezos era una strategia per tenere sotto scacco il potere politico e far in modo che Amazon pagasse meno tasse. (Nota: dal 1 aprile comunque Amazon ha iniziato a pagare tasse in ogni stato in cui ci sono “sales taxes” e non solo in quelli aveva una presenza fisica con i magazzini logistici).

MA COS’È LA TASSA SU INTERNET?

Il New York Times dà una lettura (quasi ironica) del tweet trumpiano di mercoledì: richiamare le tasse su internet, dice il Nyt, sembra andare incontro alle richieste di alcuni rivenditori, come Walmart, che già nel 2013 portarono al Marketplace Fairness Act, la cui reintroduzione per il 2017 è stata proposta il 27 aprile con una coalizione bi-partisan al Senato, ma ha trovato alla Camera l’opposizione dei repubblicani. L’idea della tassa in più è vista come un anatema per i sostenitori no-tax (molto repubblicani) e coccia inevitabilmente con la proposta di riduzione delle imposte uscita mesi fa dall’amministrazione e cavallo di battaglia durante la campagne elettorale.

C’È POCO AMORE TRA I DUE

Il 20 giugno Bezos era seduto a fianco a Trump alla Casa Bianca, invitato con altri leader del settore hi-tech americano a un incontro dell’American Technology Council – il Ceo di Amazon ha definito “molto produttivo” il meeting. Ma i due non si amano. Bezos, che dopo la vittoria elettorale s’è complimentato per forma con Trump, all’inizio della campagna presidenziale, a dicembre del 2015, aveva proposto, scherzosamente, di esiliare Trump nello spazio.

(Foto: White House)

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