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Come sempre da 25 anni, quanti ne sono passati  esattamente dall’arresto di Mario Chiesa a Milano e dalla esplosione delle indagini note come Mani pulite, condotte da un pool di magistrati tutti destinati a fare una grande carriera, spesso anche in Parlamento, al Governo e negli enti pubblici, le cronache politiche e giudiziarie si sono incrociate anche adesso. Cioè, alla convulsa vigilia del raduno delle minoranze di sinistra, convocatesi in un teatro romano, e dell’assemblea nazionale del Pd, che si riunirà domenica in un albergo, sempre a Roma, per fissare il calendario del congresso del maggiore partito rappresentato nelle Camere. E’ un congresso contestatissimo, che potrebbe costare la scissione del Pd, dove il segretario uscente, Matteo Renzi, non è mai stato attaccato così duramente come in questi giorni. L’obiettivo dichiarato è di fargli perdere anche la guida del partito, dopo che di spontanea volontà ha lasciato la guida del governo per la “strasconfitta”, come lui stesso l’ha chiamata, nel referendum del 4 dicembre scorso sulla riforma costituzionale.
L’incrocio diabolico delle cronache politiche e giudiziarie questa volta è avvenuta con il coinvolgimento dell’anziano padre di Renzi, Tiziano, in un’indagine cominciata a Napoli e poi arrivata a Roma sugli affari della Consip, che gestisce appalti e commesse nella pubblica amministrazione per miliardi di euro. Il reato contestato al papà del segretario del Pd è il traffico di influenze, entrato nel codice penale nel 2012 per rendere dura la vita agli amici degli amici che cercano di procurare e procurarsi favori.
In questo filone romano delle indagini campane sono già entrati come indagati, per fuga di notizie, il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, un altro ufficiale e il ministro renzianissimo dello sport Luca Lotti, regolarmente interrogati dagli inquirenti e tutti rimasti ai loro posti. Il comandante generale dei Carabinieri è stato anzi confermato proprio in questi frangenti nell’incarico arrivato a scadenza, fra le proteste naturalmente del vigilantissimo Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Che pure non è così esigente o severo, come preferite, quando a finire indagati sono esponenti del movimento grillino, come la sindaca di Roma Virginia Raggi, accusata di abuso d’ufficio e falso.
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Ho personalmente sentito alla Camera, fra esponenti del Pd che vengono e vanno di corsa da riunioni di corrente per accelerare o frenare sulla strada della scissione, auspici che Renzi a questo punto, col papà indagato, si dia quella che a Roma si chiama “una regolata”. Ma il ministro renziano Graziano Delrio, ospite di Corrado Formigli a Piazzapulita, a la 7, ha liquidato come “barbarie” ogni tentativo di strumentalizzare politicamente la vicenda giudiziaria del padre del segretario del partito. Che, dal canto suo, assicura di fidarsi dei magistrati, per i cui uffici il padre è già passato tre anni fa uscendone bene, e non crede agli appelli al compromesso che gli arrivano dalle minoranze, ma anche da amici della maggioranza. Egli è convinto che “quelli” -come chiama gli avversari- hanno già deciso da tempo la scissione, cercando solo di scaricarne la responsabilità su di lui. Che reclama invece solo il rispetto dello statuto, dove si fissa in quattro mesi il tempo entro il quale deve svolgersi il congresso una volta che se ne avviano le procedure con le dimissioni del segretario.
Questa regola statutaria è stata ripetutamente ma inutilmente ricordata nel salotto televisivo di Lilli Gruber, sempre a la 7, dallo scrittore ed ex senatore piddino, oltre che ex magistrato, Gianrico Carofiglio a Roberto Speranza, candidatosi a succedere a Renzi per conto di Pier Luigi Bersani e desideroso, per il bene del partito e per il recupero degli elettori di sinistra perduti per strada in questi anni, che il segretario uscente non si riproponga alla guida del Pd. Eppure da tutti i sondaggi Renzi risulta in testa su tutti gli aspiranti alla successione.
Gli argomenti di Speranza, e i suoi numerosi tentativi di dire e non dire, di buttare il sasso e nascondere la mano, sono stati tali che non solo il suo compagno di partito Carofiglio ma anche la conduttrice e un ospite pacioso e sornione come Paolo Mieli, editorialista ed ex direttore del Corriere della Sera, si sono spazientiti.
Va comunque detto che a confermare l’impressione di Renzi di una scissione già decisa e malamente nascosta dagli appelli a scongiurarla allungando sino all’autunno i tempi del congresso, nonché garantendo le elezioni fra un anno, alla scadenza ordinaria della legislatura, c’è quell’elenco di manifestazioni e incontri in tutta Italia con i suoi tifosi che va sbandierando da giorni Massimo D’Alema. D’altronde, l’ex presidente del Consiglio, ex segretario del Pds, prima edizione successiva al Pci, ed ex ministro degli Esteri, ha già dato un nome alla sua area giocando con le maiuscole e le minuscole del “ConSenso”. Quanto poi possa essere il consenso vero e proprio, lo si può provare solo nelle elezioni, se non lo si vuole misurare in un congresso nei tempi stabiliti dallo statuto.

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Qualche riflessione, infine, sull’anniversario ricordato all’inizio, a proposito dell’incrocio che si ripete da 25 anni fra cronache giudiziarie e politiche.
Molte sono state e saranno ancora le interviste rievocative di Mani pulite da parte dei magistrati che le condussero nel 1992 ed anni successivi. I più loquaci sono stati Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, peraltro accomunati una decina di giorni fa dalla delusione di trovarsi davanti a non più di una ventina di persone nella celebrazione del loro lavoro d’inquirenti nell’aula magna del tribunale di Milano, che fu l’epicentro del sisma giudiziario costato la vita alla cosiddetta Prima Repubblica e ai partiti che erano stati al governo.
Dal flop di quella cerimonia al tribunale, dove racconta spesso che gli batte moltissimo il cuore ogni volta che vi rimette piede, Di Pietro ha ricavato la sconsolata convinzione che non sia più di moda l’indignazione per la corruzione politica da lui combattuta 25 anni fa. E ciò perché è prevalsa quella che l’ex pubblico ministero, ma anche ex leader di partito, chiama “la società della furbizia”, come se non ci fossero già molti furbi fra i manifestanti con le magliette del 1992 e anni successivi: manifestanti che gli chiedevano di farli “sognare” ma che magari avevano appena presentato una denuncia infedele dei loro redditi, sfacciatamente convinti di non avere così rubato soldi a nessuno. Ah, Di Pietro, santa ingenuità, a dir poco.

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