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Monza, 17 agosto 1840: la folla radunata davanti alla stazione ferroviaria è quella delle grandi occasioni. Stava per essere inaugurata la prima linea ferroviaria del Lombardo-Veneto. Assistono alla cerimonia tutte le massime autorità del Regno. Dalla vicina Villa Reale, residenza estiva della corte, sono venuti l’arciduca Ranieri, viceré e zio dell’imperatore, e la consorte Maria Elisabetta di Savoia con i figli. Seguito da una folta schiera di prelati, c’è il conte austriaco Karl Kajetan von Gaisruck, cardinale e arcivescovo di Milano. Ovviamente, non potevano mancare le autorità civili e militari di ogni ordine e grado, affiancate dai rampolli delle più illustri famiglie aristocratiche lombarde. Solo l’imperatore Ferdinando era rimasto a Vienna, ma era presente in ispirito. Gli viene perciò tributato un pensiero riverente nei discorsi di rito e si cantano inni in suo onore. Ma sua figura mal si prestava a rappresentare la maestà imperiale: mite, insignificante, gracile di corpo e seminfermo di mente. Non era però un problema. A reggere le sorti dell’impero ci pensava l’onnipotente cancelliere von Metternich, e proprio sotto i  suoi auspici era stata realizzata la “imperial-regia strada ferrata Milano-Monza” dalla ditta Holzhammer di Bolzano.

La locomotiva Lombardia -scrive un cronista dell’avvenimento- “pavesata di vessilli e festoni, traina un convoglio di tre carrozze sulle quali, hanno preso posto l’Arciduca, l’arcivescovo, tutte le autorità, una scorta militare d’onore e una banda militare. Il percorso, di km 12,8, viene coperto in soli 19 minuti, realizzando una media di 40,4 km/ora, di gran lunga superiore a quella delle più veloci carrozze a cavalli. A Milano, alla stazione di Porta Nuova al Ponte delle Gabelle, il treno è accolto con travolgente entusiasmo; a breve distanza, giunge un secondo convoglio (con le autorità minori, e con una seconda banda militare) trainato dalla locomotiva Milano”. A differenza della prima ferrovia italiana (la Napoli-Portici del 1839), di progettazione francese, la ferrovia lombarda fu ideata dall’ingegnere milanese Giulio Sarti, figura di geniale costruttore e imprenditore,

L’opera non deluse le aspettative, e si rivelò subito un importante volano di crescita economica e dell’occupazione. Rotaie, carrozze, macchinari, erano tutti fabbricati nelle officine lombarde. Come lombarde erano le mestranze impegnate nella costruzione delle due stazioni, Milano-Porta Nuova e Monza. Il territorio di tutto l’immenso impero asburgico sarà attraversato nel giro di pochi decenni dalle lunghe linee nere delle ferrovie. Nel clima metternichiano della Restaurazione nasce un nuovo retorico trionfalismo: la ferrovia diviene un simbolo della volontà imperiale di ristabilire la pace e la concordia fra i popoli (una pregevole rivista di storia e geopolitica, Etnie, ha dedicato a questo argomento un bel saggio ).

Passata la bufera napoleonica, Milano era nominalmente una delle due capitali del Regno Lombardo-Veneto partorito dal Congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815), ma di fatto restava una sede periferica del governo di Vienna. Dal 1814 al 1859, anno della sconfitta austriaca sui campi di Magenta, vi furono quattro moti insurrezionali contro la dominazione asburgica, incluse le memorabili Cinque Giornate (18-22 marzo 1848). Fu però anche un mezzo secolo di progresso tecnico e civile, raccomandato con fervore dallo stesso Carlo Cattaneo, che farà della Lombardia una delle regioni più avanzate d’Europa. È allora che vedono la luce le prime filande a vapore, le tessiture; e si sviluppa, accanto a quella ferroviaria, una moderna rete stradale e di vie d’acqua navigabili. A Milano, fin dal 1820 l’illuminazione con le lampade Argand soppianta quella con le vecchie lanterne a petrolio; nel 1841 inizia il servizio degli omnibus a cavalli; nel 1845 esordisce l’illuminazione a gas, con 377 “becchi” (lampioni) in funzione per tutta la notte. Parallelamente, mutano costumi e stili di vita. I caffè, sempre più numerosi, diventano luoghi di relazioni sociali e intellettuali esclusive.

La Rivoluzione francese e l’età napoleonica non erano passate senza traccia, cosi come non erano stati scritti invano i versi di Giuseppe Parini, le opere di Cesare Beccaria e i sonetti in dialetto di Carlo Porta. La nobiltà non è più una casta chiusa, e le aperture ai ceti industriali e mercantili sono sempre più frequenti: nei salotti, nei palchi della Scala, negli inviti alle feste a Palazzo Reale, nei pubblici impieghi, nell’esercito. Il rimescolamento delle carte tra le classi sociali si rispecchia anche nella moda: scomparsi gli abiti sgargianti e ricamati d’oro, cestinate le parrucche, gli spadini e le scarpette dalle fibbie d’argento, non è più possibile distinguere dall’abito un nobile da un borghese agiato. Le carrozze dorate e stemmate hanno lasciato il posto a vetture eleganti ma sobrie, discrete, di colori tendenti allo scuro. Continua la gaia mondanità del passeggio in carrozza lungo il corso di Porta Orientale (oggi Corso Venezia), ma l’ostentazione del fasto è assai meno vistosa e tracotante che in passato. Anche l’edilizia cittadina segue a modo suo il mutare del costume. Si fanno più eleganti le case borghesi, meno vistosi i palazzi patrizi, con la stessa tendenza al livellamento che mostrano gli abiti, le carrozze e gli stessi gusti alimentari. È allora che assumono la loro fisionomia signorile le quiete strade del centro cittadino.

Con la Restaurazione, inoltre, torna in auge la religione. Gli osti che danno da mangiar di grasso il venerdì o in tempo di Quaresima sono puniti con multe da cinque a dieci fiorini, o con la prigione da cinque a venticinque giorni. Beninteso, non è più il tempo dell’Inquisizione e dei processi alle streghe, ma nemmeno quello dei giacobini bestemmiatori e dissacratori. Vengono ripristinate diverse istituzioni religiose soppresse in epoca napoleonica, e ne sorgono nuove che gestiscono soprattutto attività caritatevoli e di assistenza ai poveri: diversi asili per l’infanzia, ricoveri per i vecchi, una casa per “giovinetti discoli”, un istituto di riabilitazione per gli ex carcerati.

Le barricate del 1848 sconvolgono questo mondo tranquillo e beneducato, amante del “commercio, del comodo, e del decoro”. La rivoluzione scoppia a Milano come a Vienna, a Budapest, a Parigi, facendo scricchiolare non solo il trono vetusto degli Asburgo ma anche quello borghese del re di Francia Luigi Filippo. Dopo il 1848 cambiano molte cose a Milano. Non c’è più il viceré ma un governatore militare: è l’odiato e temutissimo feldmaresciallo Joseph Radetzky, l’eroe nazionale che aveva sconfitto i piemontesi sui campi di Novara. Anche a Vienna tutto è cambiato. È stato congedato Metternich, emblema di un mondo che i popoli non accettano più. Ha abdicato l’inetto Ferdinando, sostituito dal giovane nipote Francesco Giuseppe, che sarà testimone della dissoluzione dell’impero austro-ungarico.

“Abbiamo fallato tutti”, ammoniva Radetzky prendendo possesso della sua carica. Sono parole che esprimono la personalità di un capo militare inflessibile e spietato nella sua devozione all’assolutismo asburgico, e tuttavia animato da un sincero desiderio di pacificazione, diversamente da come lo ha descritto certa storiografia risorgimentale. Sia Radetzky che il suo successore, l’arciduca Massimiliano, falliranno la prova. Il fratello di Francesco Giuseppe viene richiamato a Vienna nel febbraio 1859, alla vigilia della Seconda guerra d’indipendenza. L’8 giugno dello stesso anno Napoleone III e Vittorio Emanuele II entravano a Milano con le loro truppe vittoriose dopo la battaglia di Magenta. I milanesi li accolsero con applausi scroscianti quando apparvero sul balcone di Palazzo Serbelloni in corso Venezia. Era lo stesso balcone da cui si era affacciato sessantatré anni prima, il 15 maggio 1796, il cittadino generale Bonaparte, vincitore della battaglia al ponte di Lodi. Anche allora tra il tripudio della folla.

 

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