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In una fase oggettivamente non semplice per le banche italiane, lunedì 6 febbraio ha preso il via l’attesissimo aumento di capitale da 13 miliardi di Unicredit guidata dall’amministratore delegato, Jean-Pierre Mustier (nella foto). Un’operazione che, dopo il fallimento della ricapitalizzazione da 5 miliardi sul mercato di Monte dei Paschi di Siena, risalente allo scorso autunno, sarà fondamentale per rivelare il sentiment sul settore bancario italiano, zavorrato dal peso delle sofferenze.

LE CARATTERISTICHE DELL’OPERAZIONE
Nella prima giornata di negoziazione, hanno terminato in Borsa in forte calo sia i diritti legati all’aumento, sia le azioni. Nel dettaglio, queste ultime hanno terminato con una perdita del 6,87% a 12,21 euro, con 31 milioni di pezzi scambiati e un controvalore di 395 milioni di euro. Il diritto ha accusato invece una perdita del 18,85% a 10,59 euro, valore che in conseguenza degli arbitraggi risulta allineato alla parità teorica relativa all’emissione dei nuovi titoli, che vengono proposti al prezzo di 8,09 euro nel rapporto di 3 nuovi ogni 5 posseduti. Elevati gli scambi anche sul diritto: 29,8 milioni di pezzi per un controvalore di 342 milioni.

COSA SUCCEDERÀ DOPO
L’aumento di capitale, quindi, non è partito sotto i migliori auspici. In attesa di capire cosa accadrà nei prossimi giorni e come si muoveranno i titoli coinvolti, val la pena ricordare che gli attuali azionisti che decidessero di non aderire all’operazione subirebbero una super diluizione nel capitale nell’ordine del 72% nel caso in cui tutti i nuovi titoli fossero sottoscritti. E qui però bisognerà vedere se si riuscirà perché un’operazione da 13 miliardi non si era mai vista sul mercato italiano. Un po’ per questo, ma un po’ soprattutto per le numerose incertezze che costellano il quadro, la domanda è: riuscirà Unicredit a portare a trovare i 13 miliardi che le occorrono per mettere in sicurezza i conti?

GLI AZIONISTI
Un quesito che sicuramente si pongono anche i soci. Dai documenti pubblicati prima della partenza dell’operazione, emerge che alla data di pubblicazione nessuno degli azionisti di Unicredit, con una quota superiore al 3% del capitale, ha espresso “alcuna determinazione in ordine alla sottoscrizione” delle azioni in opzione nell’ambito dell’aumento di capitale né la banca “è a conoscenza di soggetti che intendano sottoscrivere una percentuale dell’offerta superiore al 5% della stessa”. I riflettori sono quindi puntati verso Capital Research, primo azionista con il 6,7% e gli arabi di Aabar, che hanno il 5% in portafoglio. Tra le Fondazioni socie storiche, Cariverona ha già fatto sapere che investirà per 220 milioni scendendo post aumento sotto la soglia del 2% (l’1,8 circa dall’attuale 2,23%), mentre Cr Torino ha una opzione per sottoscrivere l’intera tranche di propria spettanza, pari a una quota tra il 2,2 e il 2,3 per cento.

I RISCHI
Il fatto è che la banca, come scritto nel prospetto informativo, ha bisogno di tutti i 13 miliardi che cerca anche perché alla fine del 2016 ha chiuso il bilancio con parametri patrimoniali inferiori al livello di guardia fissato dalla Bce. E questo principalmente perché l’uscita dal bilancio delle sofferenze, anticipata all’ultimo trimestre del 2016 rispetto all’aumento del capitale in corso ora, ha provocato oltre 8 miliardi di svalutazioni nei conti, portando in questo modo le rettifiche complessive negli ultimi tre mesi dell’anno oltre quota 12 miliardi, e spingendo di conseguenza il risultato netto in rosso per quasi 12 miliardi. In pratica, se si considera che la ricapitalizzazione costa 500 milioni (che andranno al consorzio che si è impegnato a garantire l’operazione), quel che entrerà con l’aumento, in caso naturalmente di sottoscrizione totale, andrà a coprire le svalutazioni di fine 2016. La sfida non è da poco: poiché l’aumento di capitale (come nel caso di Mps) è indissolubilmente legato alla cessione delle sofferenze, il successo dell’operazione potrebbe riportare un po’ di ottimismo su un settore ormai considerato zavorrato dal peso dei crediti deteriorati.

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