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Tempi cupi per i nazional-populisti o per i sovranisti, che dir si voglia. Categorie che vanno distinte da coloro che proclamano una più attenta difesa degli interessi nazionali. Nel nome di una sovranità non necessariamente muscolare. Divergenze profonde. Questi ultimi puntano su un maggior protagonismo dei singoli Stati in grado di far valere le proprie differenze. Percependo che sono finiti i tempi in cui un unico vestito preconfezionato potesse essere indossato da soggetti aventi taglie diverse.

I nazional-populisti, invece, e seppur in modo inconsapevole, sono i fautori di un ritorno all’autarchia. Per l’Italia una sorta di “quota ’90” seppure a testa in giù. Con una lira che, a differenza degli anni ’30 non si rivaluta sulla sterlina, ma perde quota, rilanciando l’inflazione interna e la perdita di peso di gran parte della ricchezza finanziaria accumulata, con sacrifici enormi, dalle famiglie italiane. Sarà di nuovo stagflation, con le domeniche a piedi non per rispettare il credo ambientalista. Ma per ridurre il peso della bolletta petrolifera.

Gli apprendisti stregoni, che per primi hanno coltivato questa nuova religione, sono rimasti, per usare un’espressione volgare ma efficace, “cornuti e mazziati”. I fautori del leave volevano sottrarre l’Inghilterra dalle grinfie dell’Unione europea. Si trovano invece di fronte al rischio di un ripetersi di scissioni: dalla Scozia all’Irlanda del nord. Altro che United Kingdom. Ma tanti staterelli, ciascuno con la propria moneta e la propria bandiera. Il colmo per un Paese il cui esercito marcia in nome di Sua Maestà britannica. Simbolo dell’unità del Paese e della personificazione dello Stato.

Attenti quindi alle facili suggestioni. Scambiare lucciole per lanterne può costare caro. Il punto non è l’avventurismo dei leave britannici o nostrani. Ma capire come ricollocare nella giusta prospettiva la necessaria difesa degli interessi nazionali. Necessaria a causa delle profonde trasformazioni intervenute nel contesto internazionale. Ai tempi della globalizzazione rampante era facile delegare ad altri poteri e prerogative. In chiave sovranazionale. Il Mondo marciava con una velocità tranquillizzante, merito della centralità di un mercato che travolgeva le più antiche, ed ormai desuete, barriere amministrative.

La parola d’ordine era “convergenza”. Gli ex Paesi del vecchio Terzo Mondo indossavano gli abiti dei Brics. La vecchia Europa resisteva, vendendo alla Cina o all’India le attrezzature necessarie per la loro rapida industrializzazione. E tutto si svolgeva nella più totale “armonia”. Poi con la crisi del 2007 ed i grandi fallimenti bancari, determinati dalla voracità dei manager globali, quel meccanismo é entrato in crisi. La Cina e l’India non si sono più limitati a produrre solo tessile e cianfrusaglie, ma la concorrenza è stata a tutto campo. Alcuni Paesi, come la Germania, hanno resistito. Per altri é iniziato un periodo di declino, che ha mandato in soffitta lo spirito della “convergenza”.

Oggi le differenze, sia di breve che di lungo periodo, si sono accentuate. Si consideri solo la situazione italiana: a dimostrazione che le macro-politiche uniformi sono sempre più inadeguate. Basta del resto dare ascolto ai continui moniti di Mario Draghi, quando dice che la politica monetaria – non a caso uniforme per l’intera Eurozona – da sola non gliela fa. Occorre, al contrario, il supporto di ulteriori interventi. Ma questi ultimi non possono che variare da Paese a Paese, a secondo della diversa realtà. Richiedono, in altre parole, maggiori dosi di sovranità nazionale.

Ed ecco allora spiegato l’arcano. Quando Mark Rutte, il leader olandese si dimostra meno acquiescente al buonismo imperante sugli immigrati, lo farà anche per contrastare gli estremisti di Geert Wilders. Ma quel cambiamento è soprattutto imposto dalle mutate circostanze. Che poi coincidano anche con la fase elettorale, è solo la dimostrazione del legame indissolubile che lega la comunità di popolo al proprio Stato. Attenti, quindi, a non confondere queste innovazioni politiche con il presunto trionfo del populismo e della sua egemonia. Rutte rimane un liberale pragmatico. Mentre Wilders il leader di una destra nazionalista. Ed è questo quello che conta.

babele politica

Vi racconto le vere differenze fra Mark Rutte e Geert Wilders

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