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Più sentivo il discorso d’esordio presidenziale di Donald Trump, più vedevo la coreografia della festosa cerimonia di giuramento e d’insediamento del successore di Obama, più pensavo a Carlo De Benedetti, l’editore di Repubblica e dell’Espresso, ma ormai anche della Stampa, del Secolo XIX, di tanti giornali locali, imprenditore, finanziere, sempre sicuro di sé. E mi chiedevo che cosa stesse provando davanti a quello spettacolo, dovunque e con chiunque se lo stesse sorbendo. Sorbendo e non godendo, perché m’impressionò la sicurezza con la quale, negli ultimi giorni della campagna elettorale americana, ospite nel salotto televisivo di Lilli Gruber e avvolto in un gessato grigio che ne conteneva a stento una certa pinguedine, egli aveva liquidato come una bizzarria un arrivo di Trump alla Casa Bianca.

La povera Lilli si avventurò a chiederle che cosa potesse aspettarsi l’Italia da un pur improbabile Trump presidente degli Stati Uniti. Lui liquidò la curiosità della Gruber spiegandole che Trump dell’Italia poteva conoscere, per sentito dire o per qualche fotografia, solo l’isola di Capri. Invece il povero Trump era già venuto più volte dalle nostre parti, mai avvertendo evidentemente l’interesse di conoscere e di parlare con cotanto editore, preferendo incontrarsi a Milano, fra gli altri, con Daniela Santanché, nota come pitonessa o “la Santa”. Che è poi il titolo da lei voluto per un’autobiografia.

La disistima dell'”ingegnere” per Trump, evidentemente ricambiata, era proprio totale. Sul piano finanziario egli lo dipinse come uno carico più di debiti che di soldi. Sul piano politico gli preferì Silvio Berlusconi: sì, proprio lui, l’ex Cavaliere di Arcore, processato e condannato più dai giornali dell’ospite della Gruber che dai magistrati di mezza Italia. Per ordine dei quali l’azionista di maggioranza di Mediaset ha dovuto peraltro staccargli un assegno di cinquecento milioni di euro -credo- per la controversa scalata alla Mondadori, pur oggetto  già di una transazione fra i due.

A Berlusconi quella sera De Benedetti riconobbe l’onestà di avere creato un suo partito, anziché impadronirsi di un altro, come egli accusò Trump di aver fatto col partito repubblicano americano dei Bush, di Reagan, di Nixon, di Eisenhower, per fermarci al secondo dopoguerra. Ma soprattutto l’editore di Repubblica riconobbe all’ex presidente del Consiglio il “coraggio” di essersi proposto più volte agli elettori, come se Trump non stesse in quel momento affrontando una campagna elettorale rischiando di uscirne con le ossa rotte, secondo i sondaggi generalmente favorevoli alla concorrente signora Hillary Clinton: proprio quella che, vestita tutta di bianco, alla cerimonia d’insediamento di Trump è sfilata davanti alle telecamere come se avesse vinto lei la partita, portandosi appresso il marito non so se più stanco o depresso.

Immagino pertanto, ripeto, il disappunto, a dir poco, provato da De Benedetti nel pomeriggio italiano dell’insediamento mattutino di Trump alla Casa Bianca: un disappunto sicuramente maggiore di quello procuratogli la sera del 4 dicembre dalla sonora bocciatura di una riforma costituzionale alla quale, dopo qualche resistenza, si era esposto a dire sì, al pari dell’amico Scalfari, entrambi convinti del benefico effetto dell’impegno strappato all’allora presidente del Consiglio di cambiare poi la legge elettorale della Camera nota come Italicum.

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Ad aumentare il disappunto dell’atlantista ed europeista De Benedetti provvederanno i grillini e i leghisti con la gara che li vede già impegnati a contendersi l’attenzione e le simpatie del nuovo presidente degli Stati Uniti. Che essi considerano il punto di riferimento per la loro comune contrapposizione al cosiddetto establishment. E, specie agli occhi dei leghisti di prima maniera, per la liquidazione della Capitale “ladrona”: Washington per Trump, Roma per la Lega.

Il più lesto comunque con Trump è stato, dopo l’insediamento alla Casa Bianca, il vice presidente grillino della Camera Luigi Di Maio. Che gli ha mandato un telegramma d’auguri anche per i buoni, strettissimi rapporti che si propone di avere con Trump il prossimo governo italiano, che sarà a 5 stelle e alla cui guida Di Maio ha mostrato anche con questo gesto di considerarsi ancora predestinato. Egli ha già archiviato i pasticci contestatigli nel partito per la scarsa vigilanza sulla giunta capitolina di Virginia Raggi e la concorrenza che gli fa in moto il “Chè Ghevara dei Noantri”, come alcuni preferiscono chiamare fra i militanti il più aitante Alessandro Di Battista, Dibba per gli intimi.

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Diligentemente informato dal suo staff del telegramma di questo italiano Di Maio, peraltro provvisto di così poche stelle rispetto alle 50 che si contano nella bandiera americana, spero che Trump chieda agli uomini giusti di assumere maggiori informazioni su questo aspirante italiano a suo interlocutore.

Non vorrei che qualche superficiale navigante in internet s’imbattesse nei tanti incidenti del vice presidente della Camera con i congiuntivi e girasse al presidente Trump la diagnosi appena fatta a Di Maio sul Corriere Fiorentino da quel birbante costituzionalista di Paolo Armaroli: congiuntivite. Ormai cronica, come dimostra anche il frequente uso che il dirigente grillino fa degli occhiali da sole, anche a cielo coperto.

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