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Lo Stato islamico ha rivendicato l’attentato di Capodanno a Istanbul, e si pensa che l’uomo che ha ucciso 39 persone sparando tra la folla della discoteca Reina sia un uzbeko: ancora una volta l’IS colpisce in Turchia con uno schema politico. Come quando la scorsa estate colpiva i curdi, tornati dopo anni di relativa pace tra i target dello Stato centrale: obiettivi che hanno lo scopo di aumentare le tensioni sociali. Ora la Turchia vive una fase di confusione: fino a pochi mesi fa le ambizioni neo-ottomane della politica estera del presidente Recep Tayyp Erdogan partivano dal rovesciare il regime di Damasco dell’odiato (ex amico) Bashar el Assad. Ora Ankara ha siglato una tregua con Mosca, iniziata in fase beta su Aleppo, dove ha imposto la resa ai ribelli, permettendo la riconquista governativa della città, tradendo i combattenti che fino a pochi mesi prima aveva finanziato (l’assassinio che pochi giorni prima di Natale ha ucciso l’ambasciatore russo ad Ankara ha gridato “non dimenticheremo Aleppo”). E la fase successiva della tregua prevede la soluzione politica della crisi, per la quale i turchi hanno accettato la permanenza temporanea al potere di Assad. La rivendicazione del Califfo, arrivata attraverso i media outlet ufficiali, è un’aperta dichiarazione di guerra che sfrutta il disorientamento per questo cambio di rotta improvviso per aumentare caos e tensioni nel paese.

LA RICHIESTA DI APPOGGIO NEGATA DAGLI AMERICANI

Russia e Turchia, un anno fa nemiche quasi in guerra al nord di Aleppo, sono ora l’asse che spinge le dinamiche in Medio Oriente partendo dalla Siria, con gli americani assenti, gli iraniani allineati, i sauditi impantanati nel Vietnam yemenita e Israele opportunistico player. Dal 29 dicembre questa partnership diplomatica ha avuto un ulteriore step sul lato dell’operatività militare. Aerei russi hanno dato sostegno all’operazione Scudo che la Turchia ha avviato in Siria il 24 agosto, sotto lasciapassare russo, per combattere contemporaneamente Isis e curdi. L’abbinamento delle forze aeree mandate da Mosca alla missione turca è un dettaglio operativo che nasconde dietro una traccia politica che arriva fino all’attentatore uzbeko e ai ceceni che colpirono a giugno l’aeroporto Ataturk. Fin da quando l’operazione turca in Siria è iniziata, Ankara si è lamentata dello scarso sostegno fornito da Washington, alleato storico – la situazione è simile a ciò che è successo a luglio, quando Washington non si espose subito a sostegno di Ankara per la vicenda del golpe aprendo a una crisi nei rapporti culminata nei giorni scorsi, con le accuse di collusione con l’IS lanciate da Erdogan contro gli Stati Uniti. La Turchia è il secondo più grosso esercito della Nato e si aspettava una mano nelle attività di liberazione dall’IS da parte di americani e europei. Ma questo aiuto è sempre latitato: pare ci siano una quarantina di uomini delle forze speciali statunitense che fanno da advisor militari ai comandanti della Mezzaluna, ma nulla di più. Perché invece gli Stati Uniti hanno messo il grosso delle proprie forze (e dei propri sforzi, anche diplomatici) sulla stessa latitudine ma più a est, dove almeno 600 uomini delle Special Unit americane stanno guidando più di 50mila combattenti di un raggruppamento di milizie curdo-arabe verso la roccaforte califfale di Raqqa. La Turchia detesta questo progetto militare statunitense, perché è troppo inclusivo nei confronti dei curdi siriani (sarebbero circa i tre quarti dei combattenti), che Ankara considera nemici perché alleati del Pkk, e che sono il secondo obiettivo della missione Scudo – forse il primo in termini di impegno.

MOSCA-ANKARA, L’INTESA PROCEDE

Ora l’apertura dell’asse operativo con Mosca anche dal punto di vista militare dimostra che l’intesa ha una proiezione (dove la Russia ha un peso maggiore). Nelle stesse ore in cui l’attentatore entrava al Reina, l’ultima riunione dell’anno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvava in extremis una risoluzione di sostegno all’intesa turco-russa per la pace in Siria. Ossia, le Nazioni Unite cercavano di mettere il cappello in un accordo al quale non solo non hanno partecipato, ma per il quale il delegato per il conflitto, Staffan de Mistura, dopo anni di talks e riunioni, non risultava nemmeno nella lista di coloro a cui era stato notificato il documento.

LE PREOCCUPAZIONI EUROPEE

Da anni, fin dai primi periodi della costituzione dello schema negoziale Friends of Syria, la Turchia ha chiesto il permesso di avviare un’operazione simile a quella in corso su Al Bab (s’intende sul lato militare, con mire politiche orientate ai tempi alla sostituzione di Assad), ma soprattutto i delegati europei ai tavoli negoziali si sono messi di traverso. Mosca, tre mesi fa, ha invece concesso il permesso dall’alto del controllo esercitato sulla situazione siriana e Ankara ha accettato di modificare i propri piani, perché l’obiettivo è cambiato: non più Assad, ma curdi e Stato islamico. Il governo turco, tutto insieme, in poche settimane, ha completamente cambiato linea su Damasco condivisa con l’UE e gli Usa, ha praticamente mollato il sostegno fornito per anni ai ribelli mantenendo in piedi l’appoggio soltanto a coloro che aiutano nella Scudo, e accettato una via di risoluzione della crisi che include il mantenimento al potere del rais Bashar el Assad per tutta la fase di transizione. Elementi che peggiorano la già instabile situazione interna, e aumentano le preoccupazioni per l’atteggiamento ambiguo e altalenante tenuto dalla Turchia, dove le mosse di Erdogan sono troppo facilmente frutto di un’agenda personale e poco inquadrate nelle dinamiche regionali, su cui invece l’Occidente vorrebbe la Mezzaluna più allineata – le preoccupazioni arrivano da prima, dal sostegno troppo poco filtrato all’opposizione siriana, tutta, pur di rovesciare il regime, anche se ai tempi l’Occidente chiudeva un occhio pur di non sporcarsi le mani; proseguono adesso con l’allineamento funzionale con la Russia per combattere più liberamente i curdi. Le condoglianze della Cancelliera tedesca Angela Merkel e del suo ministro degli Esteri, per esempio, non sono soltanto legate alla grande presenza etnica turca in Germania, ma sono frutto di una sentita e reale preoccupazione e paradigma di una situazione in cui gli stati europei hanno perso la bussola davanti a quella che viene definita la mediorientalizzazione della Turchia, alleato fondamentale nella regione. Il leader europei guardano con ansia alle mosse di Erdogan, porgono commiati interessati, cercano spazi di dialogo, perché una delle poche carte in mano al presidente turco resta l’accordo sui migranti chiuso con Bruxelles. Si parla che molti foreign fighters siano già tornati nei loro paesi di origine europei da cui erano partiti per unirsi al jihad califfale. Si chiama terrorismo di ritorno il grande nemico che l’UE si troverà a combattere, centinaia di potenziali attentatori, che potrebbero trasformarsi nei prossimi Mehdi Nemmouchi o Mohammed Merahautori già due anni fa di stragi a Bruxelles e Tolosa una volta rientrati, addestrati, dalla Siria. Per contrastarlo occorre un filtro d’imbocco: in Turchia, appunto.

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