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Mentre i giornaloni di carta, i soliti, hanno chiuso quest’anno, che Walter Veltroni sull’Unità ha definito “bastardo”, con la gara sulle anticipazioni del messaggio augurale del presidente della Repubblica a reti televisive unificate, l’ineffabile Massimo D’Alema ha voluto rifesteggiare a modo suo, dopo i primi applausi con una rappresentanza scelta della irriducibile minoranza del Pd, la vittoria conseguita contro il suo rottamatore Matteo Renzi nel referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale.

Con stile più o meno aulico, e apparentemente distaccato, citando Renzi di sfuggita solo in un passaggio, almeno secondo quanto ne hanno riferito le indiscrezioni, il signor Massimo ha lanciato dalla rivista della sua Fondazione ItalianiEuropei – tutta una parola, vi raccomando – un urticante messaggio augurale a tutte le sinistre del mondo. Che sono in crisi e rischiano di essere travolte dal cosiddetto populismo, variante o travestimento della solita reazione in agguato da sempre. E le ha tutte invitate, queste sinistre, a rigenerarsi. Cioè, a riscoprire la loro missione fallita, o dimenticata, di ridurre le distanze fra ricchi e poveri. Ricchi, peraltro, anche se D’Alema si è dimenticato di dirlo, che sono diventati meno numerosi ma ancora più ricchi, speculari sull’altro versante ai poveri anch’essi più numerosi e più in bolletta.

Non so, francamente, che accoglienza avrà questo messaggio di D’Alema all’universo mondo di sinistra, dove temo che siano passati inosservati negli anni scorsi, quelli in cui il nostro era segretario del suo partito e poi presidente del Consiglio, i contributi di pensiero e di azione dati per scongiurare i disastri che sarebbero arrivati solo dopo le sue sfortunate esperienze. Sfortunate, non foss’altro per la loro durata.

In un solo anno e mezzo, fra l’ottobre del 1998 e l’aprile del 2000, capitò a D’Alema di montare e smontare ben due governi da lui diretti. Poi gli capitò di fare il ministro degli Esteri: cosa che avrebbe voluto ripetere a livello europeo, sia pure senza che l’Europa avesse mai avuto e abbia tuttora una sua vera e propria politica estera. Probabilmente l’ex presidente del Consiglio riteneva di dargliela, ma Renzi non volle offrirgliene l’occasione, preferendo mandare a Bruxelles la meno esperta e nota Federica Mogherini, dopo un breve, direi improvvisato tirocinio alla Farnesina. Cosa, questa, che D’Alema non gli ha mai perdonato, ma di cui Renzi ha promesso di rivelare prima o poi le ragioni. Magari, il segretario tuttora in carica del Pd lo sta già facendo nel libro sulla sua esperienza di governo concordato con la Feltrinelli, che gli avrebbe già versato un consistente anticipo per consentirgli di non vivere, in questo periodo, soltanto appeso allo stipendio d’insegnante della moglie Agnese.

Certo, D’Alema non ha l’età, da un bel po’, e non poteva esserci. Ma se avesse potuto, si sarebbe trovato bene ieri o ier l’altro fra i bambini del cinemusical Disney Frozen che, delusi dello spettacolo, sono stati avari di applausi al direttore dell’orchestra –temo, un simil Renzi- guadagnandosene le proteste con questo grido che gli è costato giustamente il posto: “Babbo Natale non esiste”.

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Mi verrebbe la voglia di ripetere questo grido anche a Silvio Berlusconi, che ha colto l’occasione offertagli con una lunga intervista di fine anno dal quotidiano Libero per tornare a dire che fra lui, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, sulla strada evidentemente della ricostruzione di quello che fu il centrodestra, c’è già accordo sul 95 per cento del programma.

Dev’essere molto importante quel 5 per cento che manca se lo stato dei rapporti fra quei tre risulta quasi ai minimi storici ai giornali, ma proprio a tutti, compreso Libero, il cui direttore editoriale Vittorio Feltri ha fatto seguire all’intervista un commento per niente convinto, amichevole solo nella forma.

D’altronde, proprio sul Giornale della famiglia Berlusconi il direttore Alessandro Sallusti con la consueta franchezza, a volte persino autolesionistica, nell’editoriale di fine anno ha spiegato come meglio non poteva la ragione per la quale il presidente di Forza Italia vorrebbe andare alle elezioni col vecchio sistema proporzionale della tanto disprezzata e cosiddetta prima Repubblica, quando i partiti si presentavano da soli, raccoglievano più voti possibile e poi sceglievano, nel nuovo Parlamento, con chi allearsi per governare. Cosa, tuttavia, che non stava esattamente così, perché agli elettori il partito di maggioranza relativa, cioè la Dc, era solita dire prima del voto con chi si proponeva di governare, secondo scelte fatte con tanto di congressi. Così accadde, per esempio, per il centro-sinistra nelle elezioni del 1963, dopo il congresso scudocrociato del 1962, in cui il segretario del partito Aldo Moro lesse una relazione così lunga da inframezzarla con la pausa pranzo.

In realtà, come Sallusti ha onestamente raccontato ai suoi lettori, il sistema proporzionale offrirebbe a Berlusconi la possibilità di presentarsi alle elezioni da solo, “senza l’ossessione –ha scritto il direttore del Giornale- di dover indicare un candidato leader” a Palazzo Chigi. E’ questo evidentemente il famoso 5 per cento di accordo apparentemente soltanto programmatico che manca nei calcoli berlusconiani affidati all’intervista a Libero.

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Non so come Renzi abbia deciso di aspettare il passaggio delle consegne fra questo disgraziatissimo 2016, che gli è costata la presidenza del Consiglio, oltre alla riforma costituzionale, e un anno le cui ultime due cifre -17- non promettono gran che. Così come a questa legislatura rischia di non portare fortuna il fatto di essere la 17.ma della Repubblica, sembrando destinata a finire prima, sia pure di poco, rispetto alla scadenza ordinaria dei primi mesi del 2018.

Eugenio Scalfari, forse per scaramanzia, visti gli anni che si porta addosso, e che gli auguro sinceramente di portare ancora per molti altri Capodanni, ha invece augurato nel suo editoriale di San Silvestro a questa legislatura di morire di morte naturale. E ha consigliato a Renzi, apprezzandone peraltro “talento, capacità decisionali e carisma politico”, di starsene calmo e buono alla guida del pur disturbato Pd per prepararlo ben bene alle elezioni ordinarie. E lasciar governare il buon Paolo Gentiloni senza dare l’impressione che il presidente del Consiglio sia “il burattino” e lui “il burattinaio”.

Ma lo stesso Scalfari ha riconosciuto che Renzi è un capoccione, colpevole di non averne seguito il consiglio, dopo la sconfitta referendaria, di rimanere a Palazzo Chigi, anche a costo della impopolarità che si sarebbe procurata dopo avere tante volte promesso, con l’aria però di minacciare, le dimissioni nel caso in cui la sua riforma costituzionale fosse stata bocciata. Com’è avvenuto, dimissioni comprese.

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