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Avere il privilegio di occuparsi dello sviluppo sostenibile di un ente finanziario significa conoscere perfettamente le pericolose simmetrie che possono determinare le scelte intraprese perché, se una banca opera bene moltiplica denaro e promuove sviluppo sostenibile, se opera male “moltiplica” i danni, spesso insostenibili.

Anche per questo motivo gli intermediari finanziari più avveduti mantengono la mente della sostenibilità all’interno della governance strategica dell’azienda perché se è pur vero che tutto ebbe inizio nel 2016 con una grande rincorsa, da parte di tutti, nessuno escluso, a conformarsi ai dettami della nuova normativa sulla rendicontazione non finanziaria, il salto di qualità strategico lo ha compiuto chi ha stabilito innanzitutto “cosa fare per cambiare” e poi “come rendicontare” il cambiamento. Questo senza nulla togliere all’importanza fondamentale della direttiva 2014/95/Ue e il conseguente decreto n. 254 del 2016 per una comunicazione efficace e trasparente dei dati non finanziari ai potenziali investitori, per finanziare la transizione ad un’economia Esg ai sensi del Piano di azione sulla finanza sostenibile dell’Ue.

Le banche italiane, come testimonia un rapporto della Banca d’Italia di dicembre 2023, pur essendo in ritardo nel processo di allineamento alle normative, hanno decisamente accresciuto la consapevolezza di dover adeguare il proprio modello di business nell’ottica della transizione ad un’economia Esg. Tuttavia, è interessante rilevare che questa “falsa partenza” mantiene dei retaggi culturali che, come spesso accade, prima di svilupparsi nei comportamenti prendono avvio dalle definizioni introdotte e dalle parole che le caratterizzano le quali, vuoi per erronea interpretazione, vuoi per traduzioni poco felici rischiano, nell’ipotesi migliore, di frenare quei processi virtuosi e determinanti non solo per le aziende ma per le comunità e l’ambiente in cui esse vivono e dovrebbero prosperare.

Sono molte le definizioni che possiedono questa “pericolosità”, fra queste meritano una riflessione le parole diversity, materialità, stakeholder che, se male interpretate, da paladine della sostenibilità possono ergersi a nemiche del cambiamento e dell’auspicata transizione. Esistono infatti definizioni/traduzioni ufficiali di diversity, un termine oramai associato al termine inclusion, che sono a dir poco fuorvianti. Ad esempio, una definizione molto diffusa che definisce la diversity come … tutte le differenze tra le persone: età, etnia, sesso, genere, orientamento sessuale, aspetto fisico, disabilità, religione e status socio-economico, credo politico, livello culturale, modi di vivere e di pensare… fa pensare immediatamente all’azione di dover inserire/integrare il “diverso”, ma se una persona la definisco diversa sono esclusivo (e non inclusivo) in partenza.

Sembra una considerazione banale, in realtà non lo è, perché può portare ad errori che, anche se commessi in buona fede, alimentano comportamenti sbagliati disperdendo risorse che potrebbero essere destinate ad una diversity, ad esempio, definita come … il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità che le persone possono esprimere… che parte da un concetto (inclusivo) di persone uguali che esprimono valori, comportamenti, orientamenti differenti fra loro. Molto più inclusivo, si direbbe.

Sul termine materialità, riferito alla c.d. analisi di materialità, sono stati scritti interi volumi che riportano centinaia di interpretazioni della parola inglese material. Vuol dire rilevante, tangibile, misurabile o importante? Senza andare a scomodare il diritto penale che fa dei concetti di materialità e di rilevanza una precisa distinzione nella quale non c’è rilevanza senza materialità, qui il rischio interpretativo non risiede solamente nella traduzione, che incide nel nostro caso solo sulla profondità del concetto, alla base dell’identificazione del perimetro di tematiche rilevanti, materiali ecc. da considerare. Il possibile fraintendimento, più sottile e infido, è nei tempi in cui questo esercizio di identificazione dovrebbe essere effettivamente condotto.

La letteratura, seguendo attività che si sono andate consolidando nel rincorrere i dettami normativi sopra ricordati, riporta l’interpretazione da parte dei più a condurre l’identificazione delle tematiche material da rendicontare. Sarebbe forse più efficace identificare le aree material sulle attività da realizzare per operare un cambiamento, che poi verranno successivamente rendicontate. Qui, evidentemente, nessuno ha commesso errori, in quanto la ricordata rincorsa dell’ormai lontano 2016 ha riguardato tutti, siamo stati tutti presi dal sacro fuoco dei Gri, della materialità, dello stakeholder engagement (su quest’ultimo arrivo fra poco) e solo in pochi hanno immediatamente ricondotto l’analisi al fare (strategico) prima che al rendicontare (di compliance, prima che strategico) con evidenti ricadute sulla centralità della sostenibilità nella governance e nell’organizzazione aziendale.

Questo è un tema particolarmente delicato, poiché la recentissima normativa (Direttiva 2022/2464/Ue e conseguente decreto n. 125 del 6 settembre 2024) impone di fatto una ripartenza con l’analisi di “doppia materialità” e il report di sostenibilità che diventerà bilancio civilistico. Stavolta occorrerebbe evitare di aspettare la scadenza delle date di entrata dell’obbligatorietà per renderci conformi alla direttiva, e continuare a pensare a cosa fare di più e meglio per il cambiamento e la transizione e, contestualmente, a rendicontarlo in maniera trasparente, anche a beneficio dei potenziali investitori.

Un’ultima parola “pericolosa”, perché rischia un’interpretazione restrittiva è lo stakeholder engagement. Il rischio concreto è che, se non altro per assonanza, si dia troppa importanza agli “shareholder”, che sono a pieno titolo, ma non gli unici, stakeholder da ingaggiare per individuare il perimetro delle tematiche materiali. Assieme agli azionisti ci sono i fornitori, i clienti, le istituzioni di riferimento, gli investitori, i consumatori, le collaboratrici e collaboratori, le/i giovani. Per condurre un’analisi di materialità con una visione di lungo periodo, andrebbero coinvolti tutti, in primo luogo le nuove generazioni, in particolare le giovani e i giovani collaboratori, che hanno a cuore sia il destino dell’azienda sia della comunità e dell’ambiente in cui essa opera. Questo a mio avviso è davvero rilevante, materiale, importante… fate voi!

Le tre parole non sono che un esempio delle insidie che nasconde la volontà di condurre strategie di lungo periodo, e non tattiche sostenibili di breve. E poi, queste tre parole, se messe in un’unica frase, nella loro accezione più “sostenibile”, rappresentano l’essenza stessa dello sviluppo sostenibile che tutti vorremmo, ossia di chiedere agli stakeholder più interessati e interessanti (giovani) cosa è rilevante (material) per far sì che, con la realizzazione dei propri progetti, si valorizzino le diversità che ciascuno è in grado di esprimere (diversity).

Banche e sostenibilità, false amiche o autentiche nemiche? Attenti a tre parole

Di Andrea Benassi

Ci sono almeno tre parole che non sono che un esempio delle insidie che nasconde la volontà di condurre strategie di lungo periodo, e non tattiche sostenibili di breve. E poi, queste tre parole, se messe in un’unica frase, nella loro accezione più “sostenibile”, rappresentano l’essenza stessa dello sviluppo sostenibile che tutti vorremmo. Il commento di Andrea Benassi

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