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Lunedì i miliziani che combattono sotto la sigla Bonyan al Marsous, che raccoglie i gruppi soprattutto misuratini che sei mesi fa hanno lanciato un’offensiva per liberare la Libia dal Califfato, hanno annunciato che Sirte è stata completamente liberata dall’infestazione dei jihadisti di Abu Bakr al Baghdadi. I baghdadisti avevano istallato nella città costiera del medio-oriente libico una roccaforte che per un periodo di tempo è stata considerata non soltanto “la fiorente capitale” del Califfato locale (virgolettato del New York Times), ma addirittura il piano-B (“fall-back” scriveva sempre l’IS) da utilizzare se l’esperienza in Siraq fosse finita male. Davanti all’avanzata dei misuratini, però, i soldati di Baghdadi hanno mostrato subito poca resistenza e abbandonato da subito ampi territori sotto il proprio controllo: era giugno, e i comandanti da Misurata parlavano di un’offensiva che sarebbe durata pochi giorni, visto l’inconsistenza del nemico. Il nemico però s’era arroccato in porzioni cittadine, asserragliato, e pronto a rispondere all’assedio. Quella che doveva essere una campagna semplice per i soldati misuratini s’è trasformata in una carneficina: si parla di 200 uomini del Califfato che erano rimasti a Sirte, gli altri si sono dispersi sia in Libia che negli Stati vicini (sembra, ma si tratta di ricostruzioni quasi impossibili da verificare). Duecento che hanno tenuto testa a un numero quasi trenta volte più grosso di miliziani libici, uccidendone o ferendone più della metà.

LA POLITICA DIETRO AD ANNUNCI E RICONQUISTE

Gli annunci di giugno usciti dai comandanti e politici di Misurata (realtà che spesso si accavallano in Libia) avevano un obiettivo politico: dare spinta al sostegno che la città/Stato tripolitana stava fornendo al tentativo del premier designato dall’Onu Fayez Serraj di formare un governo di unità. Misurata è anche un importante punto di contatto per l’Occidente, per inglesi, americani e italiani, i cui governi stavano dando sostegno al processo politico studiato a tavolino dalle Nazioni Unite che dopo un anno non ha trovato risoluzione definitiva vista l’assenza della fiducia politica che il parlamento di Tobruk dovrebbe assicurargli. L’HoR, questa la sigla che definisce la Camera dei rappresentanti esodata in Cirenaica due anni fa, deve superare il voto secondo l’intesa scritta e firmata davanti all’Onu, ma nell’Est libico Serraj e il suo processo di pacificazione trovano il maggiore ostacolo: il nome che lo impersona è quello del generale Khalifa Haftar. A giugno parlare di un’offensiva lanciata dai miliziani fedeli a Serraj verso Sirte per liberare un pezzo di costa mediterranea ricca di petrolio dalla presenza dei terroristi dello Stato islamico significava dare un peso politico forte, anche a livello internazionale, all’esecutivo che si stava formando – già da qualche mese – a Tripoli. E questo perché è evidente che, fatti salvi gli interessi petroliferi e quelli connessi agli investimenti del grosso fondo nazionale, la principale preoccupazione dell’Occidente tutto era la minaccia terroristica dei baghdadisti: tanto che ci si è abituati al fatto che mentre le diplomazie lavorano ufficialmente su una linea, nel caso quella rappresentata da Serraj, le intelligence e i militari di vari paesi europei (uno su tutti, la Francia) insieme agli americani hanno portato avanti contatti anche con la sponda d’opposizione in chiave anti-terrorismo. E dunque, se Serraj avesse vinto la guerra ai baghdadisti sarebbe stato il benedetto dall’Occidente e avrebbe ricevuto un’incoronazione ancora più ufficiale dal campo.

RENZI, TRUMP, E I VIAGGI A MOSCA

Poi le cose sono evolute. Serraj, che insieme alla missione militare aveva il più complicato compito di costruire un governo e trovare la quadra dell’intesa, nonostante lo sforzo della Nazioni Unite e di paesi come l’Italia o gli Stati Uniti che lo hanno accompagnato fianco a fianco, non riusciva nel suo intento. Più passavano i mesi e più era pacifico che il tentativo in atto a Tripoli non fosse il governo della Libia, perché Tobruk restava praticamente indipendente e cominciava a subire il fascino delle attenzioni che gli arrivavano dalla Russia, e che si accodavano a quelli di Egitto e Emirati Arabi (e meno ufficialmente ai contatti di altri paesi con il generale Haftar). E intanto a Tripoli i gruppi armati che per fame di potere si erano opposti a Serraj ma erano restati sotto traccia per l’evidente inferiorità davanti alle potenze internazionali, sono tornati a muoversi, a dimostrare la proprie opposizione (opposizione che riguarda anche e soprattutto Haftar e la possibilità di un accordo nazionale), a mostrare bandiera. Qual è lo stato dei fatti adesso? Si torna a parlare di un Serraj liberatore dai terroristi, ma Serraj ha perso appeal e davanti a lui si sono disgregati i due più grandi sponsor internazionali: Matteo Renzi ha perso il referendum costituzionale su cui aveva scommesso le sorti del governo, ha presentato le dimissioni che per volere del presidente della Repubblica diventeranno operative soltanto dopo l’approvazione della legge di bilancio: è dunque improbabile che viste le contingenze e visto il periodo di incertezza a cui l’Italia si affaccia, il dossier-Libia occupi a Roma i primi piani degli scaffali. A Washington Barack Obama è dimissionario e il suo successore sarà Donald Trump, che vede anche per la Libia la possibilità di aprire a un dialogo con Mosca.

HAFTAR IL RUSSO

A metà ottobre il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov, l’uomo che per il Cremlino copre l’area MENA, aveva dichiarato in un suo intervento al Valdai Discussion Club che Mosca avrebbe valutato con attenzione eventuali richieste di aiuto alla Russia arrivate “dalle autorità” di Iraq e Libia per compiere insieme “le operazioni contro i terroristi”. Qui va fatto un chiarimento: quando Mosca parla di “autorità” con riferimento alla Libia intende l’HoR, che è l’ultimo parlamento eletto ed è ostaggio delle controparti politiche di Haftar, e questo perché il governo russo non ha mai riconosciuto la premiership di Serraj. Infatti pochi giorni dopo la dichiarazione di Bogdanov, il generalissimo cirenaico è volato in direzione delle capitale russa, dove ha incontrato tutti i vertici militari del Ministero e anche il capo della diplomazia Sergei Lavrov. La Russia potrebbe essere molto utile ad Haftar, perché potrebbe lavorare per sbloccare l’embargo imposto dalle Nazioni Unite sulla Libia, ma potrebbe esserlo ancora di più se decidesse di aprire un altro fronte sul Mediterraneo simile a quello siriano. Se il sostegno dovesse diventare materiale e non più solo politico/diplomatico, con un dispiegamento a Tobruk (o meglio a Bengasi, sede del quartier generale dei miliziani di Haftar) o il passaggio di armi ad Haftar, allora l’intervento russo potrebbe essere mascherato ancora una volta da operazione anti-terrorismo come in Siria, pure se dietro ci sarebbe di nuovo una scelta di campo su un conflitto locale – interessi: la Cirenaica di Haftar potrebbe fornire la possibilità di utilizzare basi di appoggio per esercitare presenza geopolitica russa sul Mediterraneo, è questa la speculazione del momento.

CHI GARANTISCE UN FUTURO STABILE?

A Bengasi il generale Haftar dice di combattere i terroristi, ma la sua lotta è concentrata per lo più su fazioni che hanno collegamenti con il mondo di Misurata e di Tripoli (alcune sono anche radicali). Se gli incontri moscoviti di Haftar, già a quota due in pochi mesi, a cui va aggiunto il viaggio di alto profilo del rappresentate haftariano Abdel Basset Badri, dovessero dare come risultato un intervento militare russo la cose per Serraj si metterebbero malissimo. Soprattutto adesso che gli mancherà il sostegno principale da Italia e Stati Uniti. Haftar sta diventando via via più forte, gode di un piedistallo più ampio e solido (anche il ministro degli Esteri italiano ha parlato della possibilità di includerlo in un percorso politico, se rispetterà i patti) ed è meno inviso anche perché l’output petrolifero libico da dopo che i terminal sono entrati sotto il suo controllo è arrivato a 600 mila barili al giorno, quasi il doppio di qualche mese fa, con previsione che entro fine anno si arrivi a 900 mila. Al momento, al minimo del coinvolgimento politico idealista (per esempio, al convegno Med sul Mediterraneo organizzato dalla Farnesina e dall’Ispi l’argomento è stato messo in sordina), è possibile che le nazioni che allungano i propri interessi sulla Libia scelgano di sostenere chi riesce a garantire una migliore/maggiore stabilità, perché lo Stato islamico ha perso Sirte, ma con ogni probabilità buona parte dei suoi uomini sono ancora dispersi per la Libia: e si è visto che l’instabilità è una delle condizioni migliori per l’attecchimento delle istanze jihadiste del gruppo. È stato lo stesso Serraj a parlare della possibilità di combattere, insieme, uniti, il terrorismo.

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