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Dopo il bombardamento con un agente chimico, probabilmente gas nervino, di ieri mattina a Khan Sheikhoun, nella provincia nordoccidentale siriana di Idlib, i social network sono stati invasi da foto agghiaccianti delle vittime. Le prime stime parlano di 58 morti, di cui 11 bambini, e centinaia di persone gravemente intossicate, con i tipici sintomi del gas sarin.
La notizia ha fatto immediatamente il giro del mondo, suscitando indignazione, i prevedibili dinieghi del regime di Bashar al-Assad e la dichiarazione di Mosca secondo cui l’attacco avrebbe colpito un arsenale chimico dei ribelli. Nell’impossibilita’ di un’inchiesta indipendente, tocca affidarsi alle testimonianza dei civili di Khan Sheikhoun, del personale medico, degli operatori umanitari, tutte convergenti: hanno visto gli aerei arrivare, udito le esplosioni, osservato la nuvola gialla alzarsi sul terreno e le vittime rantolanti. Un crimine di guerra, accusano i paesi occidentali. Su iniziativa di Usa, Gran Bretagna e Francia, che hanno subito preparato una bozza di risoluzione, il Consiglio di sicurezza Onu si riunirà oggi per decidere il da farsi. Ma, se effettivamente il responsabile fosse Assad, ben poco si potrà fare al di là della condanna di rito.
Il regime, forte delle vittorie degli ultimi mesi, è sempre più saldamente al comando. Assad approfitta ampiamente delle divisioni tra i paesi coinvolti nel conflitto per perseguire la sua politica dei bombardamenti indiscriminati, col sostegno dell’aviazione russa. Il dittatore di Damasco, soprattutto, ha assimilato la lezione di un altro episodio, ben più grave, risalente all’agosto 2013, quando un attacco col gas sarin in un sobborgo di Damasco causò la morte di 1.400 persone. La reazione di Barack Obama lasciò un segno indelebile nella storia della guerra civile siriana. Memore del suo monito di un anno prima — quando intimo’ ad Assad di non varcare la “linea rossa”, l’uso di armi chimiche – predispose il suo paese ad un immediato intervento militare contro il regime. Salvo poi fare marcia indietro e accodarsi ad un’iniziativa di Mosca, che propose il suo compromesso: in cambio dell’impunità, Assad avrebbe consegnato l’intero arsenale di armi proibite, un migliaio di toNnellate di agenti chimici banditi dalle convenzioni internazionali.
Nella lunga intervista concessa l’anno scorso alla rivista The Atlantic, dedicata alla “Obama doctrine”, l’ex presidente si dichiarò “fiero” della decisione di non intervenire in Siria. Una decisione che sancì definitivamente l’impotenza americana di fronte alla spirale di violenza in cui era precipitato il conflitto, e di cui le armate di Assad portano gran parte della responsabilità. Ma il comportamento del regime era controbilanciato dalla crescente jihadizzazione della guerra civile. Pochi mesi dopo il bombardamento al gas di Ghouta, veniva proclamato il califfato, che inglobava intere porzioni del territorio siriano. Il mondo fu stregato dalla virulenza del nuovo nemico jihadista, serrò i ranghi e si predispose a combatterlo. La lotta contro i crimini di Assad passò inesorabilmente in secondo piano. Nel settembre 2015, infine, ogni ipotesi di “regime change” fu archiviata dinnanzi all’intervento russo, che portava in dote a Damasco il possente arsenale della superpotenza.
Sono rimasti in pochi, oggi, ad invocare la caduta di Assad. Tra questi, non c’è l’America di Trump, che proprio in questi giorni, per bocca dell’ambasciatrice Nikki Haley, ha fatto chiaramente capire che la deposizione di Assad non è più un’opzione considerata dagli Stati Uniti. La priorità della nuova amministrazione è la lotta contro il terrorismo jihadista, ossia il nemico giurato di Assad. Ogni altra questione passa in secondo piano. Bisogna vedere se, a fronte di tale convergenza di interessi, gli Stati Uniti e i loro alleati saranno disposti a chiudere un occhio davanti ai crimini di guerra di Assad.
La discussione di oggi al Consiglio di sicurezza ci dirà se l’allineamento con Damasco (e Mosca) è ormai irreversibile.

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