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Ancora una volta non tutti i mali vengono per nuocere. A sua insaputa, visto che ha contestato con sdegno la “svolta garantista” attribuitagli dai giornali quando ha eliminato dal cosiddetto codice etico del suo movimento l’automaticità delle dimissioni per i “portavoce” raggiunti da un avviso di garanzia o da una sentenza di condanna in primo grado per reati compiuti “senza dolo”, cioè colposi, come quello di omicidio da lui commesso tanti anni fa guidando imprudentemente un’auto in montagna, Beppe Grillo ha portato un po’ d’acqua al garantismo vero. Un’acqua di cui magari il capo delle 5 Stelle si dorrà alla prima occasione prendendosela, per esempio, col magistrato dichiaratamente di sinistra Piergiorgio Morosini, consigliere superiore della Magistratura. Che in un’intervista al Giornale di Sicilia, prendendo spunto proprio dalle polemiche provocate dalle ultime sortite del comico genovese, ha appena riconosciuto e deplorato l’uso politico degli avvisi di garanzia fatto dal cosiddetto “circuito mediatico-giudiziario”, composto evidentemente non solo da giornalisti ma anche da pubblici ministeri, che fanno gli uni da sponda agli altri, e viceversa.

Da questo circuito micidiale, che solo la malafede o un’imperdonabile ingenuità può considerare casuale, è nata la fine della cosiddetta prima Repubblica, liquidata ignobilmente come un’epoca di malaffare. Ma si è poi sviluppata malissimo la cosiddetta seconda Repubblica, finita male certamente anche per gli errori politici e personali di Silvio Berlusconi, che ne segnò l’avvio con la vittoria elettorale nel 1994, ma pesantememte condizionata pure dall’uso delle sue vicende giudiziarie fatto dagli avversari. Che, non riuscendo a batterlo nelle urne, o a governare per più di due anni dopo averlo sconfitto elettoralmente, si sono aggrappati ai suoi processi come naufraghi ad una ciambella di salvataggio. E quelle di Berlusconi sono state spesso vicende giudiziarie, per la loro frequenza e il loro numero abnorme, sospettabili di pregiudizio.

Della terza Repubblica che, a torto o a ragione, alcuni hanno intravisto prima nella nascita del Pd a vocazione cosiddetta maggioritaria guidato da Walter Veltroni e poi nell’avventura governativa di Matteo Renzi, comprensiva della riforma costituzionale affondata dagli elettori il 4 dicembre scorso, non so francamente dirvi neppure se sia mai cominciata davvero. E verrebbe voglia di dubitare anche della seconda, nonostante essa si sia avvalsa di ben due leggi elettorali, che di solito segnano il passaggio da un’era politica all’altra. Ne dubito perché vedo crescere la nostalgia della prima Repubblica, o comunque il desiderio e l’interesse di tornarvi ripristinando il sistema proporzionale, sia pure con qualche correttivo.

Dalla cosiddetta prima Repubblica, che fu poi quella delle sue grandi fortune economiche, quando riuscì felicemente a combinare le indubbie doti imprenditoriali e il sostegno di uomini accomunati nella sigla del Caf, cioè – in ordine rigorosamente alfabetico dei loro cognomi – Bettino Craxi, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, è soprattutto attratto proprio Silvio Berlusconi. Che ne ha riscoperto opportunisticamente i pregi quando, perduti troppi voti per strada a causa dei suoi errori, e non solo – ripeto – della malvagità degli avversari, si è accorto che col sistema maggioritario dei collegi uninominali si è fatta troppo forte la concorrenza della Lega di Matteo Salvini in quella che fu l’area di centrodestra. E ciò a prescindere da quell’incomodo per tutti che si chiama Beppe Grillo: per tutti davvero, anche per quello che fu il centrosinistra e che alcuni vorrebbero riesumare con la respirazione artificiale attivata dai Giuliano Pisapia di turno.

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Ma torniamo al tema del garantismo imprudentemente sollevato, per lui e a sua insaputa, dal capo delle 5 stelle col nuovo codice “etico” del suo movimento, e raccolto sul versante giudiziario dall’insospettabile Piergiorgio Morosini, consigliere del Csm e storico esponente della corrente di “Magistratura Democratica”.

Nel denunciare l’uso politico degli avvisi di garanzia da parte sia dei pubblici ministeri che li emettono, sia dei giornalisti che li anticipano e reclamizzano, sia dei politici che ne approfittano per far fuori l’avversario di turno, Morosini ha tolto dall’isolamento in cui li aveva buttati una certa cultura, chiamiamola così, giudiziaria magistrati o ex magistrati come Carlo Nordio, Antonio Sangermano e Luciano Violante. Soprattutto quest’ultimo, i cui moniti contro quella che lui ora chiama “la società giudiziaria”, troppo condizionata dall’applicazione e dal ricorso alla legge penale, valgono in qualche modo doppio per il ripensamento da cui sono nati e maturati.

Violante, non dimentichiamolo, negli anni del passaggio drammatico dalla prima alla seconda Repubblica, mentre infuriavano le indagini contro il finanziamento illegale della politica e contro la mafia, tra Milano e Palermo, cioè quando le carriere anche di politici consumati venivano troncate da un avviso di garanzia, che pure doveva e dovrebbe valere a favore e non contro l’indagato; Violante, dicevo, era considerato e indicato come il capo del cosiddetto partito dei giudici, o dei pubblici ministeri. E in quanto tale da semplice responsabile dei problemi della giustizia per il suo partito, il Pci, egli divenne prima presidente della Commissione parlamentare antimafia, poi presidente della Camera e capogruppo dell’ormai ex Pci, sempre a Montecitorio.

Per la sua indubbia competenza Violante avrebbe ben potuto essere eletto dalle Camere giudice costituzionale, e magari diventarne poi persino presidente, ma la sua candidatura due anni fa naufragò contro gli scogli di chi non gli perdonava, a destra, di essere stato il capo del partito delle toghe e, a sinistra, di avere smesso di esserlo, essendosi accorto degli abusi fatti dalla magistratura della fiducia in essa riposta da tanti, ed avendo auspicato che fossero “separate” quanto meno “le carriere dei pubblici ministeri e dei giornalisti” cresciuti alla loro ombra.

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Ora non resta che sperare che dai semi del garantismo involontariamente innaffiati dagli sputi di Grillo nasca finalmente qualcosa destinato a resistere alle prime intemperie. E’ una speranza debole, lo riconosco. Ma è bene che la speranza, anche in questo caso, sia l’ultima a morire.

Di giustiziaccia, quale considero quella gestita dal circuito mediatico-giudiziario ora lamentato anche da Morosini, ne abbiamo vista anche troppa sia nella prima sia nella seconda Repubblica per non temere che finisca per condizionare anche la terza, se verrà mai, o il ritorno alla prima, se Berlusconi, da solo o in compagnia non so ancora bene di chi, riuscirà a fare questo miracolo politico.

mani pulite, legge elettorale

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