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Un corrispondente della radio dell’esercito israeliano ha raccontato che la 98esima Divisione nota che, rispetto ai combattenti di Hamas nella Striscia di Gaza, i combattenti di Hezbollah sono più organizzati e operano con sistemi a lungo raggio, più efficaci ed efficienti. Per semplificare, sono più forti. Si sapeva: i libanesi sono di più numericamente, sono meglio armati e sono più addestrati al combattimento. Fondamentalmente è così perché l’Iran considera Hezbollah il gioiello più prezioso della corona di milizie regionali che compongo il cosiddetto “Asse della Resistenza” — che odia Israele e gli ebrei, ma detesta anche l’Occidente come modello socio-culturale e gli occidentali per traslato (anche perché, come dimostra la narrazione cinese attorno alla crisi mediorientale, ormai le due cose si possono fondere senza remore).

La capacità di combattimento di Hezbollah è uno dei problemi che porta menti strategiche israeliane a dire che occorre concentrarsi sul Libano e chiudere la partita con la milizia sciita, perché già tenere aperto il fronte settentrionale mentre si combatte a Gaza non è semplice. Lo pensa per esempio David Maidan, alto dirigente dell’intelligence israeliana attualmente scettico sul percorso politico del governo di Benjamin Netanyahu (di cui però fu consigliere ai tempi delle trattative per il rilascio del caporale Gilad Shalit), secondo cui “per colpire l’Iran ci sarà tempo, sebbene Israele abbia tutto il diritto e il dovere di farlo dopo quei centottanta missili che hanno colpito il nostro territorio”, ha detto durante un evento ospitato dalla Fondazione Med-Or mercoledì.

Attaccare l’Iran è il tema del momento. Dove, quando, come colpire, ormai è noto, sono i punti che collegano la linea che divide l’instabile, ultra complessa situazione attuale da una guerra regionale totale. Israele ha già un piano pronto da anni. Sa perfettamente quali sono i bersagli da centrare per fare molto male alla Repubblica Islamica, dall’infrastruttura petrolifera alle basi militari, fino ovviamente ai siti del programma atomico. Ha probabilmente anche i mezzi per colpire con efficacia, anche se ex e attuali alti funzionari israeliani hanno riconosciuto di avere dubbi sul fatto che il paese abbia la capacità di causare danni significativi alle strutture nucleari dell’Iran. Lo scrivono top star giornalistiche come Ronen Bergman, David Sanger ed Eric Schmitt sul New York Times. Dunque non c’è motivo di credere che l’informazione non sia vera, e soprattutto accurata.

“Tuttavia, negli ultimi giorni, i funzionari del Pentagono si sono chiesti in silenzio se gli israeliani si stessero preparando ad agire da soli, dopo aver concluso che potrebbero non avere mai più un momento come questo”, aggiungono. E questo è un fattore: il momento. Non ha dubbi che lo sia Naftali Bennett, l’ex primo ministro di orientamento sionista conservatore, il quale spiega che c’è la necessità (“l’Iran — dice — ha accumulato uranio altamente arricchito in quantità sufficiente a produrre dieci testate nucleari”); l’abilità (“non solo è l’ultimo minuto per impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari, ma è anche un’opportunità irripetibile per farlo, dal momento che le difese, Hezbollah e Hamas, sono temporaneamente, gravemente indebolite”); la giustificazione (“più forte che mai”, perché l’Iran “ha appena eseguito il più grande attacco missilistico balistico nella storia della guerra” contro Israele).

Bennett aggiunge un quarto elemento, “l’impegno”. Dice che “Il 14 luglio 2022 il presidente Joe Biden ha ufficialmente promesso a nome degli Stati Uniti: ‘Gli Usa sottolineano che parte integrante del nostro commitment è l’impegno a non permettere mai all’Iran di acquisire un’arma nucleare’ e che sono ‘pronti a utilizzare tutti gli elementi del loro potere nazionale per garantire tale risultato’”. E però, su questo non c’è certezza. A quanto pare la circostanza è parte delle consapevolezze israeliane, che non starebbero comunicando a Washington i piani di attacco contro l’Iran. Lo scrive chiaro il Wall Street Journal in un altro di quegli articoli informati usati (come quello del Nyt) per far uscire pubblicamente messaggi espliciti, certamente più volte articolati in privato: “Israele ha finora rifiutato di divulgare all’amministrazione Biden i dettagli dei suoi piani per vendicarsi contro Teheran, hanno detto funzionari statunitensi, anche se la Casa Bianca sta esortando il suo più vicino alleato mediorientale a non colpire le strutture petrolifere o i siti nucleari dell’Iran tra i timori di un allargamento regionale della guerra”.

Zineb Riboua, un’attenta analista dell’Hudson Institute mai tenera nel sottolineare le magagne a Dc, commenta altrettanto chiaramente: “Israele ha imparato alcune lezioni dall’Ucraina: più si fa affidamento sul coinvolgimento degli Stati Uniti, più la situazione peggiora, bisogna agire quando si può e poi dirlo alla Casa Bianca”.

E però qua si apre il problema, perché Israele sa che potrebbe aver bisogno degli Stati Uniti per gestire sia militarmente che diplomaticamente gli effetti del contrattacco all’Iran. O addirittura averne bisogno già adesso con Hezbollah in qualche maniera. Ma mentre Washington continua a posizionare assetti in Medio Oriente — mercoledì sono arrivati gli F-15 del 389th Fighter Squadron dalla base aerea di Mountain Home, Idaho, all’Aor del CentCom — si avvicina Usa2024. E una guerra regionale in Medio Oriente — il luogo delle “endless war” trumpiane, detestate da un’ampia gamma di elettorato non solo repubblicano — sarebbe deleteria per l’erede dell’amministrazione Biden, la candidata Dem Kamala Harris.

Anche perché, quale postura avrebbe Washington in una guerra tra Israele e Iran? Non sarebbe costretta supportare obtorto collo lo stato ebraico? Oppure potrebbe lasciarlo al suo destino? È noto che Biden non sopporti a livello personale Netanyahu. Le rivelazioni in “War”, il nuovo, clamoroso libro di Bon Woodward, icona mitologica del giornalismo globale, dicono che più e più volte l’americano abbia trattato l’israeliano a male parole, con riferimenti piuttosto espliciti (si cita il libro: “bad f***ing guy, a son of a bi**h”, dice il “capo del mondo libero” a proposito del primo ministro della “unica democrazia mediorientale”). Tuttavia, pubblicamente Biden non ha mai abbandonato lo storico sostengo a Israele (proprio perché “storico”, e avrebbe anche riflessi su parte altre porzioni degli elettori, e poi perché nello scontro totale tra democrazie e autocrazia vale molto quella considerazione che si dice Roosevelt fece sul leader autoritario del Nicaragua Samosa).

Mercoledì Biden e Netanyahu si sono sentiti per la prima volta negli ultimi due mesi. Harris, portatrice di una linea che potrebbe essere più pubblicamente critica del primo ministro alleato, era presente alla conversazione. Che ha avuto solo un tema: comprendere quando, dove e come Israele colpirà l’Iran. I dettagli non ci sono ancora, ma la relazione è tesa. Gli americani sanno perfettamente che uno scontro tra Israele e Iran significherebbe un aumento del coinvolgimento militare nella regione. Non è nemmeno troppo un problema di capacità di copertura del fronte, sebbene è chiaro che una parte di risorse sarebbero dirottate in Medio Oriente anziché altrove (vedere la questione delle rotazioni delle portaerei dall’Indo Pacifico). Il problema è politico, perché i soldati americani diventerebbero bersagli degli attacchi delle milizie, ci sarebbero notizie rumorose, ci potrebbero essere perdite dirette da una regione in cui gli Usa vogliono uscire (e senza chiasso, come dimostra il poco risalto che il disimpegno dall’Iraq ha preso in questi giorni). La notizia più importante del momento è infatti questa: il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, ha trasmesso al ministro degli Esteri iraniano un messaggio da parte di Washington sulla rappresaglia israeliana. Nel messaggio si afferma che Washington non è pienamente a conoscenza delle intenzioni di Israele, ma ha assicurato a Teheran che non parteciperà a un attacco contro i siti nucleari iraniani.

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