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L’altro ieri ad Islamabad si sono incontrati il presidente turco Erdogan e il suo collega iraniano Rouhani. Oltre a discutere delle relazioni commerciali, che ambedue vogliono intensificare, i due leader hanno parlato, ça va sans dire, di Siria. Com’è noto, dopo aver sostenuto parti opposte – l’Iran è strenuo sostenitore di Assad, mentre la Turchia è stato il primo sponsor dei ribelli sunniti – i due paesi hanno cercato di ricucire la frattura iniziando a cooperare per una via d’uscita dalla guerra civile siriana.

Una guerra il cui corso è stato profondamente alterato dall’intervento russo a sostegno del regime, che se prima era in procinto di essere abbattuto dai suoi numerosi avversari, ora appare ben saldo al comando oltre che intenzionato a riconquistare palmo a palmo il territorio sottrattogli dalle opposizioni in armi e dalle formazioni islamiste.

Così, a gennaio, Turchia, Russia e Iran hanno organizzato i colloqui di Astana, convocando i rappresentanti del governo e dei ribelli per indurli a più miti consigli e cercare di addivenire a una pace concordata. Il problema è che, così impostati, i negoziati rappresentano una sconfitta per il fronte sunnita, costretto ad ingoiare il mantenimento al suo posto del macellaio Assad, che essi hanno cercato di far cadere nei sette anni di guerra. Un’eventualità sempre più remota, alla luce del sostegno dell’aviazione russa garantito alle truppe di Assad e, ancor più, della presenza sul terreno di numerosi miliziani sciiti comandati dai guardiani della rivoluzione dell’Iran.

In questa situazione, il ruolo della Turchia pare quanto mai ambiguo, essendo Erdogan costretto a rimangiarsi la promessa di deporre il satrapo di Damasco e, quindi, a tradire la causa dei ribelli che ha appoggiato per tutto il corso del conflitto. La Turchia, d’altra parte, sembra ora più concentrata a impedire la nascita di un’entità curda al suo confine meridionale più che a inseguire il suo sogno egemonico sul Medio Oriente. Questa ossessione ha spinto il presidente turco a fare una chiara giravolta, conducendolo ad assecondare il disegno espansionista di Teheran che non nasconde la propria ambizione di essere il dominus della mezzaluna sciita che collega Iran, Iraq, Siria e Libano.

Alla luce di questo progetto, appaiono quanto meno risibili le dichiarazioni rilasciate da Rouhani durante l’incontro con Erdogan. “La Repubblica islamica dell’Iran insiste sull’integrità territoriale dei Paesi della regione”, ha affermato, “e si oppone a qualsiasi violazione della loro integrità territoriale, specialmente in Siria ed Iraq”. Una dichiarazione che si può tradurre in questo modo: Siria ed Iraq sono cosa nostra, guai a chi interferisce sul nostro progetto egemonico in Medio Oriente. Che la Turchia assecondi questo disegno appare quanto meno un esercizio spericolato di geopolitica, considerato che gli interessi della Turchia e dell’Iran sono teoricamente contrapposti.

È probabilmente il segno della debolezza di Erdogan, che oltre a non essere riuscito a centrare i suoi obiettivi in Siria è ora costretto, coi curdi sempre più forti vittoria dopo vittoria, a collaborare con una potenza, l’Iran, che ha un’agenda destabilizzatrice che non potrà che ripercuotersi sulla stabilità di un’area della quale la Turchia è parte integrante. Ma la Turchia non aveva forse alternative, considerata l’assenza degli Stati Uniti nella fase crepuscolare di Obama e la netta prevalenza dell’asse siriano-russo-iraniano sul terreno.

Ora però che a Washington si è insediata un’amministrazione ostile all’Iran e desiderosa di essere “great again”, la Turchia sarà costretta ad uscire dall’ambiguità e a fare una volta per tutte una scelta di campo. O con gli ayatollah, o con l’Occidente. Poiché sogna di diventare presidente permanente della Turchia – a breve i turchi saranno chiamati alle urne per approvare o meno la riforma del sistema costituzionale che assegna enormi poteri al capo dello Stato – Erdogan dovrà decidere quanto prima la direzione della sua politica estera. L’ora dei giri di valzer è finita.

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