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Non c’è che dire. I sondaggisti non attraversano un buon periodo di forma di recente, in nessun area geografica.

Ma nemmeno analisti e commentatori finanziari (sottoscritto compreso) hanno mostrato particolari capacità previsive ultimamente, non tanto per non aver attribuito maggior probabilità a Trump (in molti abbiamo segnalato il rischio di una sorpresa) ma per aver ipotizzato, più o meno in coro, una reazione assai negativa sui mercati.

Il canovaccio dello spoglio ha pressoché ricalcato quello del referendum Uk, e di altre tornate elettorali di italiana memoria. I sondaggi mostravano un, se non confortevole, discreto vantaggio per Hillary. Le proiezioni (vedi lampi di ieri), eccezionalmente a seggi aperti, hanno rafforzato a lungo la sensazione. Dopodiché il conteggio ha progressivamente dato un quadro opposto, e durante la nottata europea i mercati hanno rapidamente mangiato la foglia e svoltato in profondo rosso ben prima che Trump ottenesse l’ufficialità.

La seduta asiatica è al momento rimasta l’unica vittima di questa sorpresa elettorale, che forse gli addetti ai lavori considerano meno eccezionale della maggioranza degli osservatori politici e del pubblico generale. I Future dell’S&P 500 sospesi al ribasso a -5 per cento hanno ovviamente pesato sul sentiment generale. Capro espiatorio, Tokyo, che ha dovuto vedere lo Yen salire di quasi il 4 per cento contro $, ma le perdite sono state diffuse sui principali indici, ad eccezione di Shanghai, che in queste occasioni resta spesso isolata. A completare il quadro di somma risk aversion, Treasuries in forte rialzo, e dollaro in picchiata di 2 punti percentuali (misurato col dollar index).

L’apertura europea ha avuto il sapore del post Brexit, pur con minore intensità. Futures con cali del 4 per cento, euro e bonds core in rialzo robusto, all’apertura banche in difficoltà, le solite cose. Ma il sentiment ha preso a migliorare abbastanza rapidamente, con gli indici che hanno trovato un assestamento attorno alla metà delle perdite iniziali.

Il catalyst è stato il discorso di Trump, che ha segnato una svolta secca nella retorica. Donald ha improvvisamente trovato le parole del tipico presidente eletto: sarò il presidente di tutti, bisogna unificare il paese, tutta l’intenzione di preservare le relazioni internazionali, parole di apprezzamento per Hillary.

Peraltro l’asset più rapido a cambiare umore sono stati i Treasuries e, in simpatia, i bonds in generale. A metà mattinata i rendimenti dei bonds Us stavano già salendo, e il $ non ci ha messo molto a reagire alla cura. Più coriacei i bonds core europei, che ci hanno messo di più ad annusare l’aria.

Già, perché nel primo pomeriggio il sentiment ha subito un ulteriore accelerazione, che ha portato le borse a passare in positivo a metà pomeriggio, per non fermarsi più, mentre gli altri asset hanno subito analoghe evoluzioni, con poche eccezioni (gli emergenti).

Quali sono i motivi di questa sorprendente performance positiva, all’indomani di un evento che tutti o quasi vedevano come un catalyst estremamente negativo nel breve?

Intanto, ha senso ricordare che l’incertezza è finita. Trump ha vinto, e ha preso anche il Congresso, il che gli dà, sulla carta, più margine di manovra, in particolare rispetto ad una Hillary con Senato repubblicano e noie legali. Si tratta di un motivo di basso profilo, nel senso che le probabilità che non avessimo oggi un presidente eletto, erano poche, legate a ipotesi di pareggio o di mancato riconoscimento della vittoria da parte di uno dei contendenti.

L’atteggiamento di Trump costituisce un indizio che le sue guasconate erano solo una strategia elettorale, ma che non ha intenzione di comportarsi in maniera irragionevole. Questo di sicuro ha avuto un impatto, per quanto non mi paia un comportamento sorprendente. Talk is cheap, come dicono gli anglosassoni, e a Donald certo non faceva comodo di esordire con un crash borsistico.

Costretti dai fatti, gli investitori hanno infine dovuto esaminare il suo programma, come noto largamente sbilanciato verso lo stimolo fiscale. Il piano fiscale di Trump, lacunoso e decisamente improntato all’ottimismo, ha a lungo suscitato l’ilarità dei suoi detrattori, che lo accusavano di non aver nemmeno provato a trovare le coperture necessarie. Ma ora, con lui alla Casa Bianca, col Congresso in mano, agli investitori sta venendo più di un dubbio che gli USA possano trovarsi di fronte a una fase di stimolo fiscale esuberante (ironicamente quello che le banche centrali chiedono a gran voce) in grado di produrre quell’accelerazione della crescita (e dei profitti) che servirebbe.

Parecchi dei movimenti odierni sono coerenti con questa lettura.

I treasuries sono crollati. La loro discesa, con tendenza della curva ad irripidirsi, riflette da un lato l’aumento del deficit, e delle emissioni di debito, e il connesso allontanamento dal concetto di responsabilità fiscale, con deterioramento delle finanze pubbliche. Dall’altro, un accelerazione della crescita, in un economia vicina alla piena occupazione vuole dire pressioni inflazionistiche, e quindi pressione sui rendimenti nominali. Infatti i breakeven inflation a 10 anni salgono oggi di 13 bps, oltre la metà del rialzo dei tassi decennali.

Il dollaro ha ripreso vigore, con l’idea che i medesimi fenomeni costringano la Fed ad accelerare sul piano della reflazione. E comunque la fiammata dei tassi offre supporto al biglietto verde nei confronti delle altre divise.

E il precipitoso recupero dell’azionario va a prezzare un aumento dei profitti grazie allo stimolo fiscale, nonché eventualmente l’effetto benefico sui margini della reflazione. Naturalmente All’Europa piace l’idea di un $ forte, e alcuni settori (finanziari e Pharma, che si liberano della Clinton) gioiscono più di altri.
E gli emergenti invece stentano, soffrendo il rialzo dei tassi in $ che inasprisce le loro politiche fiscali e eventualmente il rimpatrio de capitali verso i paesi industrializzati, vecchio tema che li aveva danneggiati in passato (e forse sta ricominciando, vedi Cina).

Facile? Direi di si. Peccato non averli fatti i giorni scorsi questi pensieri.

Ma forse non è poi così facile come il mercato adesso vuol intendere.

Intanto, l’elezione non rende il piano fiscale di Trump automaticamente percorribile. Certo vi sara un accelerazione sulla spesa ma di quanto? Ci siamo già scordati del Debt Ceiling, il tetto al debito che deve essere esteso per legge? I Repubblicani controllano il Congresso, ma siamo sicuri che siano tutti d’accordo per allargare i cordoni della borsa? E il Tea Party? Non erano contro la spesa?

In secondo luogo il mercato sembra dimenticare il resto del programma di Trump, il protezionismo, l’atteggiamento contro la Cina, l’impatto sull’export globale della sua intenzione di contenere il deficit commerciale.

Inoltre, Donald non ha alcuna esperienza, ed è inviso a parte del suo stesso partito. Dopo l’entusiasmo iniziale l’incertezza si può riflettere sul ciclo e sugli investimenti.

Il suo successo rischia di tirare la volata al populismo globale, con i principali protagonisti rapidi ad appropriarsi della sua vittoria. Non mi pare una ricetta per la stabilità politica, in particolare in Europa

Infine un successo anche parziale delle sue politiche può forzare la mano alla Fed, con le consuete ricadute su Cina ed Emergenti, in particolare se l’eventuale accelerazione dell’economia US dovesse portare meno benefici al resto dell’economia globale perché gli effetti vengono contenuti dall’atteggiamento più isolazionista.

In altre parole, evidentemente l’elezione di Trump non è la fine del mondo, ma a mio modo di vedere non è nemmeno diventato una sorta di regalo all’economia US e globale.

Ironicamento, la reazione del mercato sembra anche sottolineare come difficilmente le cause che lo hanno portato al potere, la diseguaglianza, la crisi della middle class, la rabbia contro l’establishment, vedranno i benefici sperati, da un presidente che vuole aumentare la spesa fiscale e tagliare la corporate tax.

vignetta Trump

I mercati non si sono inabissati per il trionfo di Trump. Ecco perché

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